
Memoria e Futuro
Gli occhiali sfocati
Da un po’ di tempo mi sembra di osservare il mondo attraverso occhiali dalle lenti costantemente appannate. I contorni sono indistinti, i colori slavati, i dettagli fondamentali si perdono in una foschia grigia. Forse perché non ho più gli strumenti per interpretarlo o forse perché gli strumenti che ho sono oramai buoni per il rigattiere.
Sono occhiali sfocati, non per un difetto ottico casuale, ma perché le lenti stesse – la loro composizione, la loro curvatura – non sono più rappresentative della complessità che dovrebbero rifrangere. E non sono il solo, temo. Solo che non ho paura ad ammetterlo. Altri fanno finta di nulla.
Gli intellettuali italiani, un tempo pungolo critico della società, spesso sembrano rifugiarsi in circoli sempre più ristretti ed escono ogni tanto per sentenziare sui social. Il loro discorso, denso di teorie autoreferenziali e fintamente solidali, fatica a tradursi nelle urgenze concrete della gente comune. Scrivono libri letti (forse) da altri intellettuali, partecipano a dibattiti ascoltati da una cerchia ristretta (spesso di anziani), perdendo il polso di una società che evolve con dinamiche che i loro modelli faticano a cogliere. La loro “sfocatura” nasce dalla distanza fisica ed emotiva, dall’abitare un ecosistema cognitivo separato.
O i media, una volta pilastro della democrazia, che mostrano una patologia simile. Concentrati in poche mani molto spesso disinteressate alla qualità del prodotto, inseguono (senza risultati apparenti) logiche commerciali e di audience che privilegiano il conflitto, lo scandalo, la semplificazione estrema. La ricerca ossessiva del click e della share distorce la rappresentazione della realtà, ingigantendo alcune voci (spinte dalla risonanza online) e sminuendone altre. Le redazioni, spesso ubicate in centri urbani privilegiati e popolate da professionisti con background simili, faticano a comprendere e dare voce alle periferie esistenziali e geografiche, ai lavoratori precari, a chi vive la complessità senza avere il megafono sociale. La loro lente è sporca dai pregiudizi dell’algoritmo e dalla omogeneità socioculturale di chi racconta.
Allargando lo sguardo per quanto permettano i miei strumenti oramai fuori tempo mi pare che il cortocircuito diventi lampante osservando i corpi intermedi tradizionali: partiti, sindacati, organizzazioni di categoria. Molti partiti, svuotati di militanti e radicamento territoriale, sopravvivono come macchine elettorali o comitati d’affari. Parlano in nome di un “popolo” astratto, ma i loro iscritti sono una frazione minuscola della popolazione. Chi rappresentano davvero quando le decisioni sono prese da ristrette oligarchie spesso slegate dai bisogni reali dei loro stessi elettori? Lo stesso vale per molti sindacati: mentre ampi settori del lavoro (precari, autonomi, lavoratori delle piattaforme) restano scoperti o mal rappresentati, l’azione sindacale a volte sembra concentrarsi sulla difesa di rendite di posizione o su categorie storicamente forti ma numericamente ridotte. Le sigle di categoria, a loro volta, possono finire per essere megafono delle grandi imprese, dimenticando la miriade di piccole attività che ne costituiscono la base numerica, ma non la potenza di fuoco.
È qui che scatta il meccanismo perverso. Queste élite sfocate – intellettuali, giornalisti, politici, leader sindacali e associativi – non guardano più primariamente alla realtà bruta, complessa e spesso scomoda là fuori. Si guardano l’un l’altra. Si riconoscono, si citano, si intervistano, si legittimano a vicenda in un circuito chiuso. Il politico legge l’analisi dell’intellettuale di riferimento (che a sua volta commenta le mosse del politico), il giornalista riporta le dichiarazioni del leader sindacale (che costruisce la sua narrazione pensando ai titoli di giornale), l’organizzazione di categoria negozia con un governo che guarda ai sondaggi influenzati dai media. È un dialogo tra sordi, o meglio, tra miopi che si scambiano occhiali con la stessa gradazione sbagliata. Ogni riflesso in questo gioco di specchi deforma ulteriormente l’immagine, allontanandola progressivamente dalla realtà concreta vissuta da milioni di persone.
Tolgo gli occhiali, provo a guardarli e mi rendo conto che non sono loro ad essere sfocati ma la mia vista che peggiora sempre di più. Come il contesto.
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