Memoria e Futuro
I due Charlie
Sono passati dieci anni, ma sembra un secolo. Colpa anche di come sono passati, questi dieci anni. L’attentato a Charlie Hebdo del 7 gennaio 2015 fu un attacco terroristico di matrice jihadista premeditato e coordinato che portò all’assassinio di dodici persone, tra cui alcuni dei più importanti vignettisti satirici d’Europa. L’obiettivo era annientare un simbolo della libertà di espressione e del laicismo in Occidente, un evento di portata storica e geopolitica. Al contrario, l’omicidio di Charlie Kirk della settimana scorsa è stato un episodio di violenza politica individuale subita dall’attivista conservatore americano da parte di un killer in un campus universitario. È, quindi, una differenza fondamentale di scala e natura: da un lato il terrorismo figlio del conflitto (non solo ideologico) internazionale, dall’altro un’aggressione “interna” ad una figura politicizzata.
Le reazioni popolari e mediatiche ai due eventi descrivono due mondi completamente diversi. Di fronte all’attentato di Parigi, si levò un coro internazionale di condanna e solidarietà, almeno in un primo momento. La frase “Je Suis Charlie” divenne un mantra globale a difesa della libertà di stampa. In Italia, i principali giornali dedicarono copertine storiche e articoli di profonda analisi, difendendo la satira come valore fondante della democrazia. Le piazze si riempirono con esponenti di (quasi) tutto l’arco politico. Il dibattito si concentrò (con toni più o meno esacerbati, ma su questo torneremo) sul terrorismo islamista e, con il passare del tempo, sui limiti della satira. Una polemica anche dura che ha riportato la pattuglia del settimanale francese nel suo ruolo abituale di “paria” della sinistra e della destra francesi, entrambe poco contente dell’estremismo “laico” e dell’assolutismo satirico della testata, ben addestrata a testare i limiti di tolleranza dialettica in questi tempi di “sensibilità” diffuse (almeno quanto le intolleranze).
Passati dieci anni, l’attentato a Kirk ha generato un’immediata e feroce polarizzazione. La destra americana e italiana l’ha inquadrata come l’emblema della “violenza della sinistra woke”, con figure come il ministro dei rapporti con il Parlamento che si è lanciato in spericolati paralleli con gli “anni di piombo”*. Dal lato progressista, molti hanno condannato l’atto ma con un “sì, ma…”, spostando l’attenzione sul personaggio di Kirk, descritto come un fomentatore di odio, le cui idee sarebbero esse stesse una forma di violenza. La solidarietà, quando c’è stata, è stata quindi fredda e condizionata e più legata alla paura di eventuali ritorsioni che sentita.
È proprio qui che si inserisce la strumentalizzazione di alcuni giornali e commentatori italiani, in particolare dell’area conservatrice e sovranista, che hanno operato un paragone esplicito tra i due eventi con titoli che suonavano più o meno così: “Ieri Charlie Hebdo, oggi Charlie Kirk. I nuovi fascisti sono quelli che vogliono far tacere le voci scomode”. L’obiettivo di questa operazione retorica era duplice. Primo, era una legittimazione per associazione: paragonare l’omicidio di Kirk all’attentato di Charlie Hebdo serviva a elevare Kirk al ruolo di “martire della libertà di espressione”, conferendo alla sua causa una legittimità morale immensa e, per molti, immeritata. Secondo, era un’abile inversione della narrativa: usando il simbolo di “Charlie Hebdo”, sacro alla sinistra laica, si capovolgeva l’accusa di intolleranza, dipingendo i progressisti come i nuovi censori violenti e illiberali, togliendo così all’avversario il monopolio della difesa della libertà d’espressione. Paradossalmente questa scelta è stata compiuta da coloro che anche ai tempi dell’attentato di Parigi si erano dichiarati “Charlie” non in difesa del diritto di espressione ma solo in ottica di fomentare l’odio nei confronti dell’Islam.
Questo diverso trattamento è lo specchio fedele di quanto il mondo sia cambiato in questi dieci anni. Siamo passati dalla fine dell’unità narrativa alla polarizzazione assoluta. Nel 2015, di fronte a un nemico esterno e chiaro come il jihadismo, l’Occidente tentò fragilmente di trovare una risposta unitaria. Oggi, il fronte di battaglia è interno e ideologico; la guerra culturale tra destra e sinistra, amplificata dai social media, divora ogni evento trasformandolo in un’arma per lo scontro tribale. In secondo luogo, è emersa con forza la politica identitaria e la cosiddetta “cancel culture” (i cui esponenti francesi si sono tanto battuti nel corso di questi anni per limitare il diritto di parola di giornali come “Charlie Hebdo” e non solo). Il dibattito si è spostato dalla minaccia terroristica esterna alla definizione dei confini del discorso pubblico interno, concetti che nel 2015 erano marginali. Terzo, è cambiato il ruolo dei media: nel 2015 i grandi giornali dettavano ancora l’agenda, oggi l’agenda nasce e si polarizza su piattaforme come X (Twitter) o TikTok, e i giornali spesso rincorrono narrative già esplose online, avvitati in una crisi senza fine che in Italia è segnata dal minimo storico di copie vendute, arrivate nel complesso sotto il milione (circa un terzo di quelle vendute dieci anni fa). Infine, è mutato il focus: Charlie Hebdo era in quel momento passato da testata scomoda ad istituzione simbolo della libertà di espressione, Charlie Kirk è un personaggio individuale e iper-partigiano. La nostra epoca è ossessa dalle figure individuali più che dalle istituzioni collettive. La reazione non è quindi alla difesa di un principio astratto (la libertà di stampa), ma alla difesa o all’attacco di una persona specifica e delle idee che rappresenta.
Confrontare queste reazioni non è un esercizio di equiparazione, ma di diagnosi del nostro tempo. L’operazione di alcuni giornali italiani – usare il martirio di un simbolo universale per legittimare una figura politicizzata – è il sintomo di un ecosistema dell’informazione malato di guerra culturale. Dimostra come nessun simbolo sia più sacro da non poter essere strumentalizzato per un tornaconto politico immediato. Il mondo è cambiato perché siamo passati da una società che, di fronte a un attacco mortale alla sua essenza, poteva momentaneamente trovare un punto di unità, a una società iper-frammentata dove ogni evento viene immediatamente filtrato e rimontato per alimentare la battaglia ideologica tra tribù nemiche. Io, per quanto mi riguarda, non vedo l’ora di leggere il prossimo numero di Charlie Hebdo. Scommettiamo che la copertina è su Kirk?
*Nota per fatto personale. Una richiesta, da parte di un ex adolescente che negli anni ottanta partecipò con un tema sul film di Margarethe Von Trotta ad un concorso nazionale per liceali: Anni di Piombo non è un film sul terrorismo, ma un film sulla repressione poliziesca in Germania negli anni settanta. Solo noi (e drammaticamente oramai tutti quelli che parlano del terrorismo italiano anche all’estero) lo usiamo come artificio retorico per descrivere la cupezza degli anni settanta per colpa del terrorismo. Ma non di questo si trattava. La cupezza era data dalla repressione.
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