Memoria e Futuro

I muscoli (flosci) del Capitano

di Marco Di Salvo 19 Dicembre 2025

Sembra ieri, ma Matteo Salvini guida la Lega da quel fatidico 7 dicembre 2013, quando alle primarie (sì, non le ha fatte solo il centrosinistra le primarie, nel nostro paese) spazzò via ogni concorrente con l’82% dei voti, raccogliendo l’eredità di Roberto Maroni e trasformando un partito territoriale in una macchina da guerra sovranista. Oggi però, dodici anni dopo,  fatti in gran parte di comizi roventi, selfie virali e promesse non mantenute il Capitano dei tempi belli sembra aver lasciato il posto a un motore che gira a vuoto. Non è solo il tempo che passa, ma un rallentamento sinfonico nei toni e nei gesti: da urlatore di piazze a sussurratore di emendamenti, con una stanchezza che traspare da ogni pausa troppo lunga durante discorsi spesso pieni di incidentali. Molti anni al timone lo hanno logorato internamente: non è più il ribelle che sfida il sistema a colpi di like, ma il vicepremier che difende i bilanci e le grandi opere.

Ma, prima di analizzare il presente, vale la pena fare un esercizio che i lettori della Marvel conoscono bene: un bel “What If…?”. In quel multiverso narrativo, l’Osservatore ci mostra come un singolo evento cambiato nel passato possa generare realtà parallele e stravolgere il destino degli eroi. Se applichiamo questo concetto alla politica italiana, il punto di divergenza è proprio il 2013. Immaginate se Roberto Maroni non avesse mollato tutto per il Pirellone. Maroni non era solo un navigato uomo di Stato; era il “soul man” della Lega, l’anima ritmata che sapeva tenere insieme il pragmatismo ministeriale e il cuore pulsante delle fabbriche del Nord, con quella stessa passione che metteva nel suonare il suo amato R&B.

In questa realtà alternativa, il “soul man” resta al timone invece di ritirarsi. Niente derive euroscettiche da bar sport, niente alleanze con l’estrema destra europea: la Lega resta ancorata al federalismo fiscale, sobria e corposa come un buon Barolo. Salvini? Forse un vice entusiasta, non il leader che scala il Viminale per poi inciampare nel Papeete. Senza le sue intemperie, la Lega evita i picchi stratosferici (da perdita di ossigeno al cervello) ma anche il crollo verticale e la coalizione resta un triangolo equilibrato, magari con Giorgia Meloni confinata a un ruolo di comprimaria senza l’attuale egemonia. Maroni avrebbe mediato, non polarizzato, portando a casa l’autonomia senza bisogno di esibire rosari nelle piazze e magliette da fan di dubbio gusto sotto il Cremlino.

Invece eccoci qui, nel dicembre 2025, a scrutare un Salvini che rallenta come un diesel grippato. Il confronto tra i video di ieri e di oggi è un pugno in faccia che sa di malinconia. A Pontida, anni fa, era un predicatore rock con una gestualità elettrica e un ritmo da trap italiana che bucava i social. Oggi, quel dinamismo è svanito. Al congresso di Firenze, sul prato di Pontida o negli interventi alle assemblee dello organizzazioni come Confindustria o Confcommercio, parla di “tempo rubato ai figli”, di rateizzazioni fiscali e dei disagi dei trasporti con la voce di un oratore stanco, snocciolando elenchi di cifre invece di invettive. Il suo engagement social è ridotto al lumicino (ricordate come tempestava più volte al giorno, senza ausilio di Ai?) e l’estetica del leader del popolo in felpa è stata sostituita da giacca, cravatta e grafici sui costi del nucleare. È un corpo che segue il declino della parola: meno movimento, più burocrazia, più silenzi imbarazzati.

Questo Salvini si staglia come il nonno prematuro della coalizione, un saggio rassegnato che elargisce con lo sguardo triste consigli su come usare treni, autostrade e mutui mentre gli altri corrono. Dodici anni al comando lo hanno invecchiato dentro e fuori, trasformandolo nel vicepremier che difende i miliardi dei cantieri che verranno senza riuscire più a difendere un’idea di partito. Lascia malinconicamente il proscenio a una Meloni nel pieno del vigore politico e accetta a malincuore il ruolo di capitano in pensione anticipata, lasciando ai suoi le intemperanze via emendamento, sui quali viene spesso rimproverato bonariamente con lo sguardo da mamma Giorgia.

E questo pesa ancora di più a guardare l’atteggiamento dell’altro junior partner della coalizione. Se Salvini ha mollato ogni pretesa di sembrare vitale, Tajani deve fingersi (per sopravvivere) l’eterno ragazzo della politica. Ma il suo correre frenetico, i suoi tweet ottimisti e i comizi chiusi con saltelli o urli apotropaici non sono il segno di una giovinezza ritrovata. Tajani corre perché sente dietro di sé che si è aperta la caccia grossa. Sa che i falchi del suo partito e gli alleati-rivali lo tallonano nell’ombra, pronti a sbranare ciò che resta della sua leadership alla prima esitazione, con la benedizione degli eredi di Silvio. La sua non è energia, è la frenesia di chi sa di essere diventato preda e non può permettersi di fermarsi a riprendere fiato.

Salvini, invece, ha smesso di correre. Ha rinunciato alle birre e ai selfie con i salumi per godersi il lusso amaro di chi non deve più dimostrare nulla perché ha già perso la sfida più importante. La Lega si è evoluta da rabbia padana a burocrazia verde, e il rallentamento del suo leader non è una scelta strategica, ma il riflesso di una metamorfosi malinconica: dal Capitano al Contrammiraglio di porto, un protagonista stanco in un centrodestra che premia la sopravvivenza. Mentre Tajani suda sotto i riflettori per evitare l’imboscata, Salvini osserva il declino dal divano del potere, scoprendo il dolore di invecchiare prima del tempo.

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è anche piattaforma di giornalismo partecipativo

Vuoi collaborare ?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.