Memoria e Futuro
I nemiciamici
Ogni volta la stessa scena. Sui giornali europei esplode lo stupore, l’indignazione, l’incredulità. Come si permettono gli americani? Come osano trattarci così? Eppure basta avere memoria per rendersi conto che non c’è nulla di nuovo sotto il sole atlantico. Da qualche anno a questa parte, ogni dichiarazione di un presidente americano, ogni documento strategico, ogni tensione commerciale viene presentata come una rottura epocale, un tradimento inedito, la fine dell’alleanza transatlantica. La verità è più banale e più scomoda: quello che oggi viene spacciato come novità è semplicemente la continuazione di rapporti e stili di comunicazione che sono stati una costante negli ultimi ottant’anni. Gli smemorati si stupiscono, chi conosce la storia riconosce il copione.
L’ultima occasione qualche giorno fa, quando la Casa Bianca ha reso pubblica la nuova Strategia per la Sicurezza Nazionale. Trentatré pagine che hanno provocato shock nelle capitali europee. L’Unione Europea viene accusata di minare libertà politica e sovranità delle nazioni. Le politiche migratorie europee starebbero trasformando il continente creando conflitti, con rischio di “cancellazione della civiltà”. Gli Stati Uniti si dichiarano “in disaccordo con funzionari europei che nutrono aspettative irrealistiche sulla guerra” in Ucraina, “arroccati su governi di minoranza instabili, molti dei quali calpestano i principi fondamentali della democrazia”.
L’ironia è che se davvero l’Europa subisse quelle trasformazioni che il documento paventa con toni apocalittici, potrebbe finalmente significare che il continente si svecchia, che si toglie di dosso quella natura polverosa e incapace di prospettive che lo caratterizza. Un’Europa “irriconoscibile” tra vent’anni potrebbe essere esattamente ciò di cui il continente ha bisogno: meno burocrazia di Bruxelles, più dinamismo, meno paralisi decisionale figlia dei rallentamenti provocati dai governi nazionali, più capacità di visione strategica. Ma Washington teme proprio questo: non un’Europa in declino, ma un’Europa capace di rialzare la testa e decidere autonomamente del proprio destino.
Facciamo allora un piccolo riepilogo storico di questa ambiguità mai risolta. Un promemoria da tenere a portata di mano per le prossime inevitabili crisi nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa, quando di nuovo qualcuno fingerà stupore per comportamenti che sono la norma da ottant’anni.
Tutto inizia con il Piano Marshall. Tra il 1948 e il 1952 gli Stati Uniti stanziarono 13-17 miliardi di dollari per la ricostruzione europea, non per generosità ma per contenere l’avanzata sovietica e creare partner economici affidabili. Washington sostenne la nascita della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio nel 1951 per riconciliare Francia e Germania. Quando il 25 marzo 1957 sei Paesi firmarono i Trattati di Roma istituendo la CEE, l’atteggiamento americano fu favorevole ma già emergevano ambiguità sulla creazione di un’unione doganale. E poi c’era de Gaulle, che rifiutava un’Europa “alle dipendenze degli americani” e il cui doppio veto all’ingresso britannico fu interpretato a Washington come manovra per mantenere l’Europa autonoma.
Dagli anni Novanta, finita la funzione di argine ai sovietici, la facciata iniziò a incrinarsi e per motivi tutt’altro che nobili. Il caso Boeing-Airbus divenne emblematico. Nel 1970 Boeing dominava incontrastata, nel 2003 Airbus la superò consegnando 305 jet contro 281. Il 31 maggio 2005 gli Stati Uniti presentarono ricorso al WTO contro l’UE per gli aiuti ad Airbus. Ventiquattro ore dopo Bruxelles denunciò Washington per sostenere Boeing. Nel 2019 gli Stati Uniti ottennero l’autorizzazione a imporre dazi su 7,5 miliardi di dollari di merci europee, colpendo non solo aerei ma whisky scozzese, vino francese e spagnolo, formaggi italiani, olive greche. L’Italia, che non partecipava nemmeno al consorzio Airbus, venne colpita duramente nell’agroalimentare. Solo nel 2021, sotto Biden, si arrivò a una tregua quinquennale per fronteggiare la Cina e il suo jet commerciale C919.
Nel 2003 la vicenda dell’invasione dell’Iraq segnò una frattura politica. Il 22 gennaio di quell’anno il Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld parlò di “vecchia Europa” con disprezzo per Francia e Germania che si opponevano alla guerra, e di “nuova Europa” per i Paesi dell’Est favorevoli a Washington. “La Germania è un problema, la Francia è un problema”, dichiarò. La reazione europea fu furiosa. Alain Juppé replicò: “Sono orgoglioso di appartenere alla vecchia Europa”. La ministra francese Bachelot evocò la risposta del generale napoleonico a Waterloo: “Merde”. Ma la divisione era reale: Italia, Spagna e Regno Unito appoggiarono l’intervento, Francia e Germania si opposero. Gli Stati Uniti invasero l’Iraq il 20 marzo 2003 con il pretesto delle armi di distruzione di massa mai trovate. Washington aveva dimostrato di poter giocare sulle divisioni europee quando Bruxelles non si allineava.
Veniamo ad anni più recenti. Nel marzo 2018 Trump impose dazi del 25% su acciaio e alluminio colpendo anche gli alleati europei. Juncker rispose minacciando dazi su Harley Davidson, jeans Levi’s, bourbon. Trump: “Le guerre commerciali sono giuste e facili da vincere”. L’UE rispose con contromisure su 2,8 miliardi di euro. Con il ritorno di Trump, nel febbraio 2025 i dazi sono ripartiti al 25%. Il 12 marzo l’UE ha risposto con contromisure su 26 miliardi. Trump ha promesso “ritorsioni”. Il valzer continua, identico.
E per quanto riguarda le lamentele dell’Europa non dimentichiamoci quello che successe a metà degli anni 10 del XXI secolo. Nel 2013 Snowden rivelò che l’NSA aveva spiato sistematicamente l’Europa, incluse le istituzioni UE. La Germania risultò il Paese più spiato, dieci volte più della Francia, con 20 milioni di collegamenti telefonici e 10 milioni di dati internet controllati al giorno. Francoforte, sede della BCE, era sotto particolare osservazione. La Germania era considerata partner di “terza classe”: un alleato su cui l’agenzia si riservava operazioni di spionaggio. La prima ministra tedesca reagì con stizza: “Ricorda l’atteggiamento tra nemici durante la guerra fredda”. Bruxelles minacciò di bloccare i negoziati per il libero scambio transatlantico. Ma le acque si calmarono. Gli interessi economici prevalsero.
Ma in realtà fu il progetto dell’euro che rappresentò la sfida più seria all’egemonia americana. Con Maastricht nel 1992 e l’introduzione dell’euro nel 1999, nasceva una valuta potenzialmente capace di minacciare il dollaro. Dal 1971, dopo l’abbandono della convertibilità in oro deciso da Nixon, il dollaro dominava come moneta di riserva internazionale. L’euro nasceva come alternativa per oltre 300 milioni di cittadini. Ma non è mai riuscito a scalfire il dominio del dollaro: oggi rappresenta il 20% delle riserve valutarie mondiali, il dollaro mantiene il 58-59%. L’incompletezza dell’unione fiscale europea, la frammentazione politica, la mancanza di vera politica estera e di difesa comune hanno limitato la sfida. Paradossalmente, ma fino ad un certo punto, un’Europa allargata ma divisa serve meglio gli interessi americani.
Questo ci riporta al documento del 4 dicembre 2025. Per la prima volta ciò che era sussurrato viene dichiarato apertamente. L’Unione Europea è un organismo “transnazionale” che mina la sovranità delle nazioni. Gli Stati Uniti dichiarano di voler “coltivare la resistenza alla traiettoria attuale dell’Europa all’interno delle singole nazioni europee”. Dividere per controllare. La Russia non viene mai menzionata come minaccia agli interessi americani. Washington si posiziona come arbitro tra Europa e Russia, non come alleato europeo. Il documento chiede di “porre fine alla percezione – e impedire la realtà – di una NATO in continua espansione”, formula che risponde alle richieste russe.
Analizzando ottant’anni emerge una costante: un’ambiguità mai risolta. Gli Stati Uniti hanno sempre dichiarato di volere un’Europa forte, unita, capace di parlare con una voce. Ma questa preferenza è condizionata. Come sintetizzò il diplomatico USA Philip Gordon: “Nel migliore dei mondi possibili quella voce direbbe quello che noi vogliamo sentire… Se non dicesse quello che vogliamo sentire, allora vorremmo che quella voce fosse meno unita.” Washington ha sostenuto l’integrazione europea quando serviva a contenere minacce comuni, ma ha sempre mantenuto relazioni bilaterali privilegiate con i singoli Stati, da utilizzare quando le istituzioni europee non si allineavano.
Boeing-Airbus, dazi su acciaio, spionaggio NSA, divisione sull’Iraq, differente visione su Russia e Ucraina: ogni episodio ha rivelato la stessa dinamica. Gli Stati Uniti non si sono mai opposti attivamente all’integrazione europea, ma non l’hanno sostenuta incondizionatamente. L’euro, pur non scalzando il dollaro, rimane il simbolo di un’autonomia europea che Washington guarda con circospezione. Il documento del dicembre 2025 non introduce nulla di nuovo. Rende esplicito ciò che era implicito: gli Stati Uniti preferiscono un’Europa forte abbastanza da essere alleato utile, ma non così unita da diventare competitor strategico autonomo.
Questa ambiguità continua e continuerà, perché risponde a una logica di potenza più antica dell’Unione Europea: quella di una superpotenza che non vuole partner alla pari, ma alleati subordinati. La domanda per l’Europa non è se questa ambiguità esista – è chiara – ma come rispondere. Continuare a illudersi di un’alleanza paritaria? O costruire finalmente un’autonomia strategica europea? Il campanello d’allarme suona forte. Resta da vedere se qualcuno, a Bruxelles o nelle capitali europee, deciderà di ascoltarlo. Ma servirebbe prima smettere di fingere stupore ogni volta che Washington si comporta come ha sempre fatto.
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