Memoria e Futuro

I pappagalli

di Marco Di Salvo 20 Giugno 2025

Se c’è una cosa, forse positiva, di questi anni di SOCIALizzazione spinta è che questi strumenti tolgono il velo su presunte eccezionalità di figure pubbliche sopravvalutate. Se c’è una cosa, certamente negativa, di questi anni di SOCIALizzazione spinta è che, sotto il velo, c’è spesso lo stesso vuoto delle persone comuni, che, anche per questo, in questi anni malsani, diventano star della banalizzazione contenutistica (ovvero influencer).

Nel labirinto digitale dei social media, una dinamica preoccupante si ripete ossessivamente: figure pubbliche, influencer e cittadini comuni trasformano narrazioni complesse in slogan vuoti, replicati a pappagallo senza verifica. Questo fenomeno, esploso durante le pandemie, i conflitti o le consultazioni popolari, riduce il dibattito a un ronzio monocorde dove l’analisi cede il passo alla cassa di risonanza. Prendiamo l’ultimo caso che mi è comparso sotto gli occhi, quello di un Massimo D’Alema asciutto e spigoloso come sempre, con una punta di stanchezza in più negli occhi e nei gesti, ospite a Otto e Mezzo lo scorso 18 giugno.

Come un cimelio storico che riemerge dalle teche di La7, l’ex premier è tornato con il suo repertorio collaudato, come un vecchio capocomico certo del successo dei suoi tormentoni. Questo almeno per me che sono più di trent’anni che lo ascolto, con sempre meno pazienza. Stesse teorie, stesse analisi, stesso sguardo preoccupato per un mondo che – a sentire lui – non impara mai la lezione. Il tutto da non (più) professionista della politica, naturalmente. Bastava osservarlo, come all’ennesima domanda su un suo rientro in attività, rispondeva quasi sdegnato: “Se per politica intendete Parlamento e partito, addio per sempre” (ha lasciato uno spaziettino vuoto per il Quirinale, perché non si sa mai).

Peccato che poi passi le serate a dispensare consigli alla Schlein su Netanyahu (“Posizione chiara e condivisibile!” ) e a spiegare a Lilli Gruber perché l’Iran dovrebbe dotarsi di atomiche per evitare bombardamenti: “Guardate la Corea del Nord: proprio il possesso dell’atomica impedisce attacchi militari. È un messaggio terribile, ma è così” . Una teoria che suona come un manuale di sopravvivenza per dittatori scritto da un ex comunista convertito al realismo disilluso.

C’è del tenero, in fondo, in questa coerenza granitica. Mentre gli influencer di TikTok riciclano challenge virali di sei mesi fa, D’Alema ricicla analisi geopolitiche vecchie di trent’anni con la stessa nonchalance.

E mentre denuncia la “censura su Gaza”, sembra non accorgersi dell’ironia: in un’epoca in cui i social sommergono l’utente di contenuti, lui è diventato un algoritmo umano che ripete loop di pensieri immutabili. Persino la sua critica al governo Meloni (“Si regge sul consenso più debole della storia!”) riecheggia argomenti usati contro di lui negli anni ’90.

Morale? In un mondo ossessionato dalla novità, D’Alema (come altri ospiti di riguardo dei talk show nazionali) è il comfort food della politica: lo ascolti e sai già cosa troverai nel piatto. Un misto di pacifismo post-comunista, euroscetticismo elegante e teorie nucleari paradossali, servito con una croccante crosta di “io-ve-l’avevo-detto”. Forse ha ragione: il suo addio alla politica attiva è solo un arrivederci al prossimo talk show. Dopotutto, perché candidarsi quando puoi diventare un meme vivente?

Ma di questi tempi basta poco per riaccendere fuochi sopiti, tant’è che è bastato questo passaggio tv per fare sì che anche molti di quelli che lo hanno odiato negli ultimi trent’anni, soprattutto provenienti dalle sue stesse sponde politiche, lo indicassero sui social come esempio di statista che oggi manca (in questo accomunato a diversi già scomparsi della politica che fu). Gli è bastato passare dal comunismo al luogocomunismo.

Parallelamente, nelle stesse ore, circolava nelle bacheche di tutti noi, ossessivamente, un altro mantra virale: “L’Iran è un paese pacifico, mai invasore”. Un post ampiamente condiviso che ignora secoli di storia, dall’espansione dell’antico Impero Persico sotto Ciro il Grande (545-525 a.C.) fino al sostegno militare moderno a gruppi come Hamas e Hezbollah, definiti da analisti internazionali (fino a qualche giorno fa, almeno) come “proxy”. Questa semplificazione diventa virale perché si adatta perfettamente a una narrazione vittimista, carburante della polarizzazione digitale.

Dietro questa deriva operano meccanismi precisi. Gli algoritmi dei social, si sa, premiano contenuti emotivi e divisivi. Il sovraccarico informativo, poi, spinge gli utenti ad aggrapparsi a spiegazioni preconfezionate durante crisi complesse, come dimostrano i 20 milioni di visualizzazioni su contenuti propagandistici iraniani riguardo Israele, spesso privi di contesto critico, come quelli che hanno circolato in questi anni sulla guerra russo-ucraino. A questo si aggiunge l’”attivismo pigro”: condividere uno slogan dà l’illusione di partecipare al dibattito senza lo sforzo della comprensione.

Disinnescare questa macchina dell’eco, una vera e  propria giungla piena di pappagalli, non richiede la demonizzazione dei social, ma un loro uso più consapevole. Significa verificare le fonti, contestualizzare le dichiarazioni e diffidare delle narrazioni manichee. Perché quando il dibattito pubblico si riduce a un copia-incolla collettivo, la prima vittima è la democrazia stessa, sostituita dal ruggito assordante del luogo comune.

In fondo, il vero antidoto alla pappagallità è semplice: trasformare i social da megafoni a spazi di conversazione. Sarebbe il caso di farlo anche con i talk show ma lì, mi sa, è una battaglia già persa in partenza. Diciamo…

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