Memoria e Futuro
Il buco con il centro intorno
Sono passate più di 72 ore dalle elezioni regionali in Toscana e colpisce un silenzio assordante. Né Carlo Calenda né Luigi Marattin si sono affrettati a rivendicare quel clamoroso 53% di astensionismo come prova della validità delle loro scelte strategiche. Eppure, la loro decisione di non presentarsi – motivata dall’incompatibilità con un centrosinistra allargato ai Cinquestelle – avrebbe dovuto teoricamente dare la stura a commenti entusiastici che puntavano ad intercettare proprio quel vasto elettorato moderato disgustato dalle alleanze innaturali. Ma come si fa a intestarsi un risultato quando non si è nemmeno scesi in campo, se si è persone serie ed educate come i due? Per questo solo qualche ammiccamento e nulla più. Peccato.
Altri tempi rispetto a questo storico precedente. Nel 1983, il Partito Radicale guidato da Marco Pannella mise in scena uno dei più audaci paradossi della storia politica italiana: presentò il proprio simbolo “listato a lutto” (per la contemporanea campagna sulla fame nel mondo), la Rosa nel Pugno con una vistosa banda nera obliqua, per comunicare la propria intenzione di chiedere ai cittadini di non votare attraverso una “campagna per lo sciopero dal voto”. Un gesto provocatorio che aveva una tripla valenza: promuovere appunto la suddetta campagna, rivendicare il diritto politico al non voto dei cittadini e denunciare l’illegalità delle elezioni, causata dalle censure operate dall’informazione pubblica.
Il genio politico di questa operazione stava nella sua contraddizione apparente: i radicali invitavano all’astensione pur presentandosi sulla scheda elettorale. Lo slogan implicito era quello già utilizzato in altre occasioni: “Non votate nessuno, ma se proprio dovete votare qualcuno, votate noi”. Questo consentiva al partito di rivendicare sia l’eventuale aumento dell’astensionismo sia i voti effettivamente ottenuti, in un perfetto gioco di prestigio politico.
Il risultato fu ambivalente. I radicali ottennero 542.039 voti pari all’1,47% e 7 deputati alla Camera, nessun eletto al Senato. Un ridimensionamento significativo rispetto alla precedente tornata elettorale: nel 1979 i radicali avevano ottenuto il 3,4% dei voti, passando da 4 a 18 seggi alla Camera, un risultato considerato ottimo grazie anche al carisma di Pannella e alla capacità di aggregare intellettuali, ex parlamentari comunisti e socialisti ed ex dirigenti di Lotta Continua.
Il calo del 1983 era dunque notevole: i radicali subirono un deciso ridimensionamento, perdendo più della metà dei consensi e degli eletti rispetto al picco del 1979. Evidentemente, la campagna per lo sciopero dal voto aveva fatto sì che “qualche simpatizzante aderisse alla richiesta” di astenersi, ma non abbastanza da rendere l’operazione un successo politico inequivocabile.
Eppure, il contesto era radicalmente diverso da quello odierno. All’epoca, l’astensionismo rappresentava ancora un fenomeno limitato e l’affluenza alle urne oscillava stabilmente tra l’85 e il 90%. In un tale scenario, uno spostamento anche solo del 3-4% della partecipazione poteva essere ragionevolmente attribuito a una scelta politica consapevole, a una protesta organizzata. La provocazione radicale aveva senso: poteva essere letta come un gesto di dissenso attivo contro un sistema che consideravano censorio e partitocrazia.
Oggi, con il 53% di astensionismo registrato alle regionali toscane, sarebbe grottesco per qualunque forza politica – Calenda, Marattin o chiunque altro – rivendicare quel dato senza nemmeno essersi presentati. L’astensionismo contemporaneo non è protesta organizzata ma rassegnazione di massa; non è scelta politica ma rinuncia alla politica. È la differenza tra chi decide consapevolmente di non votare per mandare un messaggio e chi semplicemente smette di credere che votare serva a qualcosa.
Il Partito Radicale del 1983, con i suoi 7 deputati eletti nonostante la campagna anti-voto, dimostrò che era ancora possibile giocare con i paradossi della democrazia rappresentativa. Ma erano altri tempi, un’altra partecipazione, un altro elettorato. Oggi quel gioco di prestigio non funzionerebbe più: quando più della metà degli elettori diserta le urne, nessuno può credibilmente intestarsi il loro silenzio senza nemmeno averli cercati sulla scheda elettorale.
Eppure il centro continua a cullarsi nell’illusione di rappresentare anche quella maggioranza silenziosa di disaffezionati. Il caso di Italia Viva (scusate, Casa Riformista) in Toscana è emblematico e va letto con precisione. Il presunto successo di Renzi non è affatto un’affermazione del progetto centrista, ma il risultato di voti strettamente personali di candidati con forte radicamento territoriale. Stefania Saccardi, vicepresidente uscente della Regione ed ex vicesindaca di Firenze, ha trascinato la lista con le sue preferenze personali, così come altri eletti che hanno costruito negli anni reti e consenso locale.
Lo si vede chiaramente dagli scarti abissali tra candidati della stessa lista (ma di differenti formazioni politiche in essa confluite): alcuni conquistano migliaia di preferenze, altri restano invisibili. Non è il simbolo che funziona, è la persona. Non è il progetto politico che convince, è la fiducia individuale. Del resto, quando il caso dell’ex-sindaco di Prato Biffoni che è rimasto saldamente nel PD e ha ottenuto un risultato straordinario in termini di preferenze, dimostra esattamente questo: conta il radicamento territoriale, non l’etichetta di partito.
Il centro italiano si nutre quindi di un equivoco permanente: confonde la rendita di posizione di singoli notabili con un consenso programmatico che non esiste. Calenda e Marattin rappresentano l’altra faccia di questa medaglia: l’intransigenza identitaria che preferisce l’irrilevanza all’alleanza, la purezza ideologica alla possibilità di incidere. Ma un centro che non si presenta non può intestarsi nulla, nemmeno la disillusione che produce.
Il 53% di astensionismo toscano è l’elefante nella stanza che nessuno vuole (o è interessato) a vedere: milioni di italiani hanno smesso di credere che votare cambi qualcosa. In questo deserto, il centro continua a litigare su confini e identità, mentre l’elettorato ha già abbandonato il campo. Forse è tempo di capire che il problema non è occupare lo spazio centrale dello schieramento, ma ridare senso all’idea stessa di partecipazione democratica. Sempre che la cosa interessi a qualcuno, naturalmente.
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