Memoria e Futuro

Il capro elettorale

di Marco Di Salvo 22 Ottobre 2025

Nella democrazia contemporanea esiste una categoria curiosa di politici: quelli che si candidano sapendo perfettamente che non vinceranno. Non è questione di pessimismo o di mancanza di fiducia in sé stessi. È matematica elettorale, geografia politica, equilibri di potere consolidati. Eppure loro ci provano lo stesso, per testimonianza, per dovere di partito, o semplicemente perché qualcuno deve pur perdere.

A New York, dove il prossimo 4 novembre si voterà per il sindaco, Curtis Sliwa incarna alla perfezione questa figura. Fondatore dei Guardian Angels, già sconfitto nel 2021 con quaranta punti di scarto, Sliwa è il candidato repubblicano che nessuno vuole. Non i democratici, ovviamente. Ma nemmeno i repubblicani, a dire il vero. I sondaggi lo inchiodano al 12-15 per cento, dietro persino a Eric Adams che ha ritirato la candidatura. Su di lui si è abbattuta una pressione brutale: il suo datore di lavoro, il magnate John Catsimatidis che gli paga lo stipendio come conduttore radiofonico, gli chiede pubblicamente di farsi da parte. Donald Trump lo liquida come candidato “non esattamente di prima categoria”. Il motivo è semplice: la sua presenza divide il voto anti-Mamdani, il socialista vincitore delle primarie democratiche, e impedisce all’ex governatore Andrew Cuomo, che corre come indipendente dopo la sconfitta alle primarie, di concentrare i consensi moderati. Sliwa denuncia offerte di denaro per abbandonare la corsa, accusa i miliardari di voler scegliere loro chi governa la città, e resta in campo. È il candidato kamikaze per eccellenza: corre per perdere, ma almeno decide lui come farlo.

L’Italia delle elezioni regionali di quest’autunno ha offerto una galleria di candidati perdenti più rassegnati. Nelle Marche, Matteo Ricci ha sfidato Francesco Acquaroli sapendo che i sondaggi lo davano già sconfitto, al netto dei “sondaggi” che restringevano la forbice che divideva i due candidati principali. In Calabria, Pasquale Tridico ha raccolto un modesto 37 per cento contro il 57,3 di Roberto Occhiuto, presidente uscente che non ha mai corso alcun rischio. Anche in Toscana, regione rossa per tradizione, Alessandro Tomasi ha affrontato Eugenio Giani con la consapevolezza di partecipare a una “sfida difficilissima”, come lui stesso ha ammesso, chiudendo con tredici punti di distacco. Candidati che hanno corso la loro gara sapendo che il traguardo era irraggiungibile, ma che hanno mantenuto il presidio politico del loro schieramento.

La Campania del 23 e 24 novembre avrebbe dovuto seguire lo stesso copione. Roberto Fico, ex presidente della Camera e volto pentastellato moderato, candidato del campo largo, in una regione considerata sicura per il centrosinistra. Tutto programmato, tutto sotto controllo. Invece qualcosa si è inceppato, e il guasto ha un nome preciso: Movimento 5 Stelle. I grillini arrivano all’appuntamento campano con le ossa rotte. Alle Marche hanno preso il 5,8 per cento, persino meno del 7,1 raccolto cinque anni prima quando correvano da soli. E non meglio è andato nelle altre competizioni regionali. Il problema è strutturale: pur essendo nati come un movimento di attivisti, hanno via via perso la capacità organizzativa sul territorio (sempre che ce l’abbiano mai avuta, ché la politica sul territorio non è solo il tavolino di propaganda del sabato) e oramai è accertato che quando i Cinque Stelle si alleano, il loro elettorato residuo evapora, confluendo verso l’astensione o verso le liste del PD o di Alleanza Verdi Sinistra. In più, sul piano programmatico si trovano in una trappola: come criticare l’amministrazione regionale uscente di Vincenzo De Luca se poi devi governare con chi l’ha sostenuta? I cavalli di battaglia tradizionali su reddito, lavoro e sanità si smussano per necessità di compromesso.

A complicare le cose ci pensa lo stesso De Luca, impossibilitato a correre per un terzo mandato e deciso a dimostrare che senza di lui la Campania non si vince. La sua lista personale “A Testa Alta” è una dichiarazione di guerra interna: in più i suoi portatori di voto fuggono dalla coalizione ufficiale del centrosinistra, creando fratture che potrebbero rivelarsi fatali. Nel frattempo il centrodestra ha schierato Edmondo Cirielli, viceministro degli Esteri, che improvvisamente intravede una possibilità concreta in una regione considerata inespugnabile (anche grazie ad una parte di coloro che fino all’elezione scorsa erano proprio con De Luca.

Fico si ritrova così in una posizione paradossale: doveva essere il candidato vincente in un’elezione scontata, ma rischia di trasformarsi nel capro espiatorio di un Movimento 5 Stelle che deve dimostrare di valere ancora qualcosa oltre al ruolo di junior partner del campo largo.

La democrazia è fatta anche di questo: candidati che perdono per statuto, elezioni il cui esito è scritto prima del voto, competizioni che esistono solo sulla carta. Ma ogni tanto gli equilibri si rompono, le certezze si sgretolano, e chi doveva vincere facile si ritrova a combattere davvero. In Campania potrebbe succedere proprio questo: un’elezione che nessuno voleva rendere interessante sta diventando il test più importante per capire se i Cinque Stelle sono ancora un partito o l’ennesima meteora della storia politica del nostro paese.

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