
Memoria e Futuro
Il come delle cose
In questi giorni pieni di politica internazionale, si coglie ancora di più l’inconsistenza della classe politica italiana, costretta suo malgrado a parlare di cose più grandi di lei e, per questo, capace ancora di più di fare risuonare l’inconsistenza delle sue parole. Ministri, leader, semplici parlamentari sono prodighi di consigli a leader mondiali impegnati in guerre di vario genere e tipo, dando l’impressione di quei tizi che al mattino incrociamo nei bar di quartiere, sempre pronti alla soluzione perfetta. Per gli altri.
Ma in realtà, anche in queste occasioni, si fa largo una caratteristica dominante della comunicazione politica italiana, ovvero la dichiarazione stentorea senza contenuti. Da Tajani a Conte a Shlein è tutto un esprimere pareri in libertà, consistenti come panna montata. Più che politici, editorialisti in libertà. Mentre in realtà il ruolo chiederebbe qualche responsabilità in più. E non solo in campo internazionale.
In effetti a pensarci bene, in Italia, la politica da sempre ha perfezionato un magico trucco: far sparire il “come” dalle sue promesse. È un’arte raffinata, portata a buon fine grazie alla benevolenza della classe giornalistica largamente intesa.
Si riempiono programmi e discorsi di parole solenni — libertà, rivoluzione, rinascita — che brillano come fuochi d’artificio, salvo svanire al primo tentativo di realizzarle. Un gioco di prestigio dove il concreto è il coniglio che non esce mai dal cappello. Un’arte che, fondata nella cosiddetta Prima Repubblica (dove i partiti “ideologici” primeggiavano nei consensi), è stata perpetuata anche nell’ultimo trentennio, con effetti a volte comici, speriamo involontari.
Prendiamo gli slogan dei leader: “Campo largo”, “Accelerazione”, “Premierato forte”. Suonano bene, vero? Peccato che nessuno venga invitato a spiegare come allargare quel campo senza far litigare i giocatori, o come accelerare un Paese che procede col freno a mano tirato per colpa di una burocrazia kafkiana. Persino il PNRR, la grande occasione europea, è diventato un festival di rinvii: tutti a declamare “modernizzazione”, ma quando si tratta di assumere tecnici, snellire gli appalti o formare personale, il “come” viene gentilmente delegato a fantomatici esperti anonimi.
La “transizione ecologica”? Un capolavoro del genere. Ogni partito ne fa un mantra, ma provate a chiedere: Come si riconverte una fabbrica inquinante in Val Padana senza mandare in tilt l’economia locale? Come si finanziano le piccole imprese per l’innovazione verde? Risposta: un silenzio imbarazzante, rotto solo dal rumore di fondi europei che rimbalzano verso Bruxelles.
E il “regionalismo differenziato”, quella geniale idea per “ridare autonomia”? Resta un rebus degno della Settimana Enigmistica. Come evitare che il Sud resti indietro? Come finanziare scuole e ospedali se le regioni più ricche trattengono le risorse? La soluzione, a quanto pare, è discuterne per altri dieci anni, magari cambiando nome alla commissione che deve studiare il problema.
Questa allergia al “come” ha radici comode. Primo: è più semplice lanciare parole d’ordine sui social che elaborare piani dettagliati. Secondo: ammettere i dettagli significherebbe svelare i conti (e gli eventuali buchi). Terzo: in un Paese dove persino aprire un chiosco di gelati richiede 37 autorizzazioni, qualsiasi “come” rischia di trasformarsi in un incubo burocratico. Meglio allora nascondersi dietro un linguaggio “pop” e rassicurante, mentre il “come” viene silenziosamente sepolto sotto una pila di slide.
Il risultato? Una democrazia affetta da sindrome del fanta-progetto, dove tutto è annunciato e nulla implementato. Come scriveva qualcuno anni fa, “le parole ingannatrici sono il veleno del dialogo”. E l’Italia ne è intossicata. Servirebbe un vaccino: obbligare la politica a inserire, accanto a ogni slogan, un foglietto illustrativo con tempi, costi e responsabilità. Ma temiamo che anche quel foglietto sarebbe “in lavorazione”. Per sempre.
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