Memoria e Futuro
Il confine del potere
Per puro caso, in questi giorni di prevista cancellazione della stato palestinese (che non c’è) da parte del governo israeliano, mi sono trovato a girare per la linea immaginaria che separa la Francia dalla Spagna e taglia in due il Paese Basco, dividendone l’anima. È lì, in quella striscia di terra che non conosce bandiere, che si consuma il primo paradosso: un popolo con una lingua antica e una cultura distinta, costretto a vivere in due Stati diversi senza mai aver scelto né l’uno né l’altro. I baschi, dopo decenni di lotta armata e repressione, oggi possiedono in area spagnola un’autonomia che sa di compromesso: possono parlare la loro lingua, insegnarla nelle scuole, amministrare parte del loro territorio. Ma non decidono veramente di sé. La sovranità, quella vera, rimane a Madrid e a Parigi.
Inevitabile pensare a sud-est, dove un altro popolo vive una beffa ancora più crudele. I palestinesi hanno ottenuto il riconoscimento di Stato da 139 paesi e sedono all’ONU come osservatori, eppure la loro vita quotidiana è scandita da checkpoint, muri di separazione e restrizioni di movimento, per non parlare della drammatica situazione odierna. Hanno tutto ciò che formalmente definisce una nazione – una bandiera, un inno, un governo – ma non controllano il loro spazio aereo, le loro frontiere, le loro risorse idriche. L’autodeterminazione senza potere è come un foglio di carta dorata che avvolge una scatola vuota: brilla alla luce dei discorsi internazionali, ma quando la si apre non contiene nulla.
Il concetto stesso di autodeterminazione dei popoli, tanto caro al diritto internazionale, rivela qui tutta la sua tragica assurdità. Che valore ha il diritto di decidere del proprio futuro quando non si ha il potere di farlo? Che senso ha tracciare confini su una mappa se poi sono altri a controllare chi può attraversarli e cosa può passare attraverso di essi?
L’ipocrisia dei governi occidentali nella questione palestinese raggiunge livelli paradossali quando esaminata attraverso il prisma delle loro storie coloniali e delle repressioni interne. La Spagna, in particolare, offre casi emblematici di doppi standard tra le sue politiche domestiche e le posizioni internazionali.
La Spagna, che ha recentemente riconosciuto lo Stato palestinese insieme a Irlanda e Norvegia, ha una lunga storia di repressione violenta dei movimenti indipendentisti interni. Il governo di Madrid ha condannato con fermezza l’occupazione israeliana dei territori palestinesi, dimenticando come ha reagito al referendum catalano del 2017: polizia inviata a bloccare fisicamente i seggi elettorali, leader indipendentisti imprigionati o costretti all’esilio, e un rifiuto categorico di qualsiasi dialogo sull’autodeterminazione catalana.
Ancora più cinica appare la posizione spagnola considerando proprio la storia basca. Per decenni, Madrid ha combattuto l’ETA definendolo “organizzazione terroristica” e rifiutando qualsiasi negoziato sotto la minaccia delle armi. Oltre 800 persone furono uccise nel conflitto, compreso l’assassinio del Primo Ministro Luis Carrero Blanco nel 1973. Eppure, oggi la Spagna sostiene senza riserve la causa palestinese, nonostante Hamas sia classificato come organizzazione terroristica da UE e USA.
L’ipocrisia spagnola raggiunge il suo apice quando si considera che le sue enclavi nordafricane, Ceuta e Melilla, sono protette da barriere fortificate “sorprendentemente reminiscenti della barriera di confine israeliana con Gaza”. Entrambe sono rivendicate dal Marocco e sono state teatro di violenti assalti da parte di migranti africani che cercano di entrare nell’UE, dimostrando come la Spagna pratichi ai propri confini esattamente quelle politiche che condanna quando attuate da Israele.
Quello che emerge da queste due storie è la cruda verità che l’autodeterminazione senza sovranità reale è poco più di un consolatorio gioco di specchi. I baschi hanno ottenuto il diritto di essere baschi senza dover più imbracciare le armi, ma non hanno mai ottenuto uno Stato basco. I palestinesi hanno ottenuto il diritto di chiamarsi Stato, ma non controllano veramente il loro territorio.
I confini nazionali, quelle linee spesso dritte tracciate con il righello dai diplomatici europei nei salotti di Versailles, continuano a dimostrare la loro natura arbitraria e violenta. Dividono famiglie, separano comunità, creano mostruosità geopolitiche che sanguinano per generazioni. E il principio di autodeterminazione, nobile nelle intenzioni, si rivela troppo spesso una tragica beffa quando non è accompagnato dal potere reale di determinare veramente il proprio destino.
Forse è arrivato il momento di ammettere che le soluzioni non stanno nel tracciare nuove linee sulle mappe, ma nel ripensare radicalmente cosa significa dare a un popolo il controllo sulla propria vita, la propria cultura, il proprio futuro. Perché finché continueremo a credere che l’autodeterminazione possa essere concessa senza trasferire vero potere, continueremo a vivere in un mondo di finzioni pericolose dove i diritti esistono sulla carta ma non nella realtà. Sempre che poi serva, avere altri poteri, se non ad alimentare la follia della sopraffazione.
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