
Memoria e Futuro
Il gioco delle colpe
Nonostante siano stati presi per dare lustro alle testate per cui scrivono pensosi editoriali, si sono ben presto abituati all’andazzo del panorama giornalistico italiano, dal quale hanno preso una penosa abitudine: fare finta di nulla.
Di chi parlo? Di certi editorialisti di prestigio che dedicano spesso più energie a smontare le previsioni altrui che ad affrontare le proprie smentite. Questo meccanismo, che potremmo chiamare “il gioco delle colpe”, trasforma le pagine dei giornali in un teatro dove l’autodifesa diventa arte retorica. E tra i maestri di questa disciplina, spicca, e lo dico dolorosamente da suo ex allievo, Angelo Panebianco, editorialista del Corriere della Sera, spesso al centro di polemiche per le sue posizioni controcorrente. Ieri campeggiava un suo pezzo sulla vicenda Trump-Musk emblematico di questo approccio, che non è però cosa solo dell’ultimo periodo.
Solo per fare un esempio, nel 2014, Panebianco pubblicò un editoriale sull’immigrazione in cui auspicava “interventi più attivi e, soprattutto, più selettivi”. La frase scatenò accuse di razzismo e contestazioni violente alla sua università a Bologna, con studenti che imbrattarono il suo ufficio di vernice rossa e striscioni con scritte come “Fuori i baroni razzisti”. Ad onor suo, Panebianco tentò il dialogo, ma la reazione fu un rifiuto secco: “Non ci interessa alcun confronto con i baroni razzisti”, gli urlarono. Eppure, invece di approfondire le critiche alla propria tesi, nei giorni seguenti l’editorialista concentrò i suoi pezzi sull’”incapacità del dibattito pubblico di affrontare temi scomodi”, derubricando le proteste a “isteria ideologica”. Un classico caso in cui la polemica sugli avversari serve a deviare l’attenzione dalle proprie posizioni controverse.
Qui emerge il cuore del problema. Come molti colleghi, Panebianco cade in un doppio standard: mentre sottolinea con precisione chirurgica gli errori altrui (ad esempio le previsioni sbagliate di Travaglio su Ucraina, Renzi o Conte), le proprie sviste vengono nascoste dietro una cortina di polemiche. Nel 2015 sostenne che “la mafia romana non esiste”, riducendo Tangentopoli a “malversazione”, non criminalità organizzata. Una tesi poi smentita dai processi, ma mai ritrattata. Anzi, quando i fatti lo contraddicono, la sua reazione è trasformare la discussione in uno scontro ideologico: chi critica è “in malafede” o “estremista”.
Il professore non è certo il solo ad esercitare quest’arte, un gioco delle tre carte che trasforma le pagine dei giornali in arene dove l’autoassoluzione diventa arte retorica. Prendiamo lo stesso Marco Travaglio, per esempio. Nel 2018, dalle colonne del Fatto Quotidiano, dipingeva Matteo Renzi come un politico “finito”, destinato a scomparire dalla scena. Pochi anni dopo, Renzi tornava al Senato e continua a partecipare da protagonista all’agone politico, nonostante la dimensione lillipuziana del suo partito. Non contento, Travaglio nel 2020 liquidava Giuseppe Conte come “burattino” destinato all’oblio politico post-Conte II. Sappiamo bene come è andata a finire tra i due. E lasciamo perdere le vicende legate alle guerre contemporanee, mai previste e poi narrate entrambe a senso unico dal direttore de Il Fatto.
Pigi Battista, dal canto suo, ha perfezionato l’arte della provocazione come tattica di diversione. La sua proposta di abolire le celebrazioni popolari del 25 Aprile – riducendolo a una cerimonia formale “come il 2 Giugno” – ha scatenato un putiferio nel 2025 . “Il signor Pagliarulo [presidente ANPI] è esattamente come me”, dichiarò al Giornale, “né io né lui abbiamo combattuto. Allora, fregiarsi del titolo di partigiano è usurpare un titolo morale”. Colpendo il simbolo, Battista ha spostato il dibattito dalla sostanza (i valori resistenziali) alla forma (l’autorevolezza di chi li rappresenta), evitando di confrontarsi con le contraddizioni storiche dell’antifascismo liberale da lui incarnato (anche quello da erede, vista l’età).
Ma il vero capolavoro di Battista è la doppia capriola retorica. Nel 2011, dopo aver bollato la comunità scientifica climatica come “inaffidabile e manovriera” sul Corriere della Sera, ricevette una lettera di protesta firmata da cento ricercatori italiani che smontavano le sue tesi. La sua reazione? Ignorare il merito e ribaltare la polemica: in un articolo successivo liquidò gli scienziati come “apocalittici”, trasformando l’autodifesa in un attacco preventivo contro “l’isteria ambientalista”. Più recentemente, ha paragonato la sinistra italiana ai no-vax per la sua “tecnofobia” verso Elon Musk, accusandola di “avvitamento ideologico” mentre regala “battaglie di libertà alla destra”. Una mossa abile: criticando la sinistra per eccesso di moralismo, ha distratto dai propri giudizi sbrigativi sul ruolo della tecnologia.
Questa dinamica rivela una crisi più profonda del giornalismo italiano. Come nota un critico, Panebianco e i suoi colleghi hanno costruito una “grammatica dell’oblio”: usano le polemiche per interrompere il dibattito scomodo e i punti finali per chiudere la memoria degli errori. Il risultato? Un sistema mediatico sempre più autoreferenziale, dove conta meno la correttezza delle analisi e più la capacità di trasformare ogni critica in una battaglia identitaria. Finché prevarrà questa logica, il “gioco delle colpe” resterà l’unico spettacolo offerto da un giornalismo che ha smesso di chiedersi dove sbaglia. Uno spettacolo che contribuisce da par suo al calo delle vendite dei quotidiani.
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