Memoria e Futuro
Il giornale sbagliato
Metà degli anni Ottanta, scuole superiori in una città della periferia meridionale italiana. Mentre molti miei compagni entravano in aula ostentando Repubblica sotto il braccio come fosse un distintivo identitario, io preferivo altro. C’erano anche alcuni, pochissimi in realtà, con l’Unità e altri con il Manifesto, ma erano quelli più apertamente schierati. Io invece leggevo (per il breve periodo in cui fu in edicola) un piccolo quotidiano come Reporter, diretto da Enrico Deaglio tra il 1985 e il 1986, senza sapere che dentro quella redazione c’era il meglio – o il peggio – della gioventù extraparlamentare (e non solo) degli anni Settanta. Nella redazione c’erano Giuliano Ferrara, che firmava alcuni pezzi con lo pseudonimo Piero Dall’Ora, Adriano Sofri, Gad Lerner e altri reduci di Lotta Continua.
Ero troppo giovane per capire chi fossero davvero. Non sapevo che il giornale era finanziato dalla corrente di Claudio Martelli e che, nonostante ciò, si proponeva come voce indipendente, seppur d’area. Il primo numero uscì con una coraggiosa posizione innocentista sul caso Tortora. Mentre quel piccolo quotidiano raccoglieva le energie di trentenni in cerca di una nuova identità, Repubblica era già un giornale di quarantenni e cinquantenni avvezzi al potere.
Ma c’è un altro aspetto della vicenda Repubblica che merita riflessione: il ruolo di Scalfari come papa laico della politica italiana, convinto di poter benedire i leader e i partiti che avrebbero dovuto guidare il Paese. La sua infatuazione per Ciriaco De Mita fu clamorosa. Appena diventato segretario della DC, Scalfari lo sponsorizzo in versione anticraxiana, con il risultato di accompagnarlo al risultato elettorale meno soddisfacente della storia del partito cattolico fino ad allora. Nell’agosto 1988, appena quattro mesi dopo l’insediamento del segretario democristiano a Palazzo Chigi, Scalfari scrisse che De Mita era già paragonabile al miglior De Gasperi. Come riportò la Gazzetta del Mezzogiorno nel 1989, De Mita aveva impiegato sei anni di scontri dialettici per togliere a Craxi il primato della politica, quattro anni per scalzarlo da Palazzo Chigi, sette anni per fare della DC un partito moderno. Ma quando finalmente assaporò il gusto della vittoria, si accorse di aver perso tutto. Craxi era più potente di prima.
Prima ancora, l’amore di Scalfari era andato a Enrico Berlinguer, definito figura-chiave del riformismo, ossequiato come il leader che voleva un partito separato da Mosca. La celebre intervista del 1981 sulla questione morale consacrò Berlinguer come punto di riferimento morale della sinistra italiana. Ma anche qui, l’effetto benedizione si rivelò paradossale: il compromesso storico fallì, il PCI rimase escluso dal governo, e quando Berlinguer sfidò Craxi sul referendum sulla scala mobile nel 1984, perse clamorosamente contro ogni previsione, con un’affluenza del 78,8%.
Il paradosso scalfariano era questo: chi riceveva la benedizione di Repubblica tendeva a perdere le elezioni o a vedere fallire i propri progetti politici. Come se il giornale-partito parlasse solo a se stesso, in una bolla autoreferenziale incapace di intercettare i reali umori del Paese.
Repubblica debuttò in edicola il 14 gennaio 1976 (auguri, a proposito, mi sa che ne avranno bisogno, l’anno prossimo). Negli anni Ottanta non era tanto un giornale da leggere quanto da esibire. Gli anni dell’immagine ne avevano fatto il simbolo di una certa borghesia progressista. La testata bastava. Il logo era il messaggio.
Oggi, a ridosso dei 50 anni dalla fondazione, quella testata è diventata un oggetto conteso, svilito. Le fibrillazioni della proprietà De Benedetti hanno accompagnato per decenni la vita del giornale, fino alla resa: la cessione al gruppo Gedi, controllato da Exor, dalla famiglia Agnelli-Elkann. L’ironia è feroce. Repubblica finiva per entrare come “gioiello della corona”, seppur ammaccato, proprio nel salotto buono del capitalismo italiano che Scalfari aveva a lungo interrogato nelle sue celebri interviste all’Avvocato.
Un giornale-partito che non riuscì mai a essere né giornale né partito. Le sue previsioni sulle fortune dei leader e dei partiti italiani furono clamorosamente sbagliate. E soprattutto condusse una battaglia aspra contro Bettino Craxi che, paradossalmente, potrebbe averlo rafforzato più che danneggiato. Quella pubblicità negativa incessante finì forse per consolidare l’immagine di Craxi come vittima di un establishment prevenuto, trasformando gli avversari di Repubblica in beneficiari involontari della sua ostilità. Come con Berlusconi, nei decenni successivi.
E oggi, forse, l’ ultimo affronto. Piersilvio Berlusconi ha dichiarato che il pensiero di mantenere una testata così storica in mani italiane “non può non affascinare, ma è fanta-economia, è fanta-editoria”. L’interesse, a parole, del figlio di Silvio viene fuori esclusivamente perché l’ipotesi è quella che Gedi venga acquisito dal gruppo greco Antenna di Theodore Kyriakou, che pare per nulla interessato allo sviluppo della testata.
E se non Berlusconi, l’alternativa sarebbe Leonardo Maria Del Vecchio, il giovane erede Luxottica, riconoscibile come proprietario del Twiga, che ha tentato un’incursione respinta sul dossier Gedi. Né Berlusconi né Del Vecchio, pur rappresentando l’italianità, rappresentano certo un’eredità plausibile per chi ha letto Repubblica negli ultimi cinquant’anni. Che beffa, eh?
L’idea che l’impero Mediaset o un rampollo del lusso possano salvare Repubblica come se fosse un’Alitalia qualsiasi è il suggello grottesco di questa storia. Un giornale nato per combattere un certo tipo di potere ridotto a marchio da contrattare. Una testata che doveva rappresentare il cambiamento diventata reperto archeologico.
Forse quel ragazzo della periferia meridionale che negli anni Ottanta non esibiva Repubblica ma leggeva Reporter aveva intuito qualcosa. Che un giornale non può essere solo uno status symbol. Che quando le campagne contro gli avversari finiscono per rafforzarli, la realtà prima o poi presenta il conto. E che se sei preso troppo da te stesso, alla fine, lasci solo briciole. E macerie.
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