Cosa vi siete persi

Il mistero degli album scomparsi

di Marco Di Salvo 18 Ottobre 2025

C’è un fenomeno curioso che sta affliggendo gli appassionati di musica italiana nell’era dello streaming: provate a cercare certi album storici su Spotify e vi ritroverete a fissare lo schermo come Indiana Jones davanti all’Arca dell’Alleanza vuota. Sono lì, ma non ci sono. Esistono, ma sono introvabili. Benvenuti nel Triangolo delle Bermuda della musica italiana, dove capolavori della nostra canzone d’autore giocano a nascondino con il pubblico del XXI secolo.

Il caso più clamoroso è senza dubbio quello di Lucio Battisti. Sebbene nel settembre 2019 sia stato il grande giorno e, dopo vent’anni di assenza digitale, dodici album del cantautore di Poggio Bustone sono finalmente approdati su Spotify , c’è un problema. Un grosso problema. Mancano all’appello cinque album. Cinque dischi interi. E non sono dischi qualunque: sono gli ultimi cinque lavori di Battisti, quelli scritti con il poeta Pasquale Panella invece che con Mogol.

Parliamo di “Don Giovanni” (1986), “L’apparenza” (1988), “La sposa occidentale” (1990), “Cosa succederà alla ragazza” (1992) e “Hegel” (1994). Il motivo della loro assenza è tanto semplice quanto frustrante: l’editore Acqua Azzurra non ha ancora dato il consenso per la distribuzione digitale. E così questi album rimangono in una sorta di limbo, introvabili sulle piattaforme streaming, come se non fossero mai esistiti. Eppure rappresentano un capitolo fondamentale della carriera di Battisti: la fase più sperimentale, intellettuale, lontana dalle melodie zuccherose di Mogol. Certo, hanno venduto pochissimo e hanno contribuito a creare il mito del “fantasma di Battisti” che si era ritirato dalla scena pubblica, ma sono parte integrante della sua storia artistica. Un pezzo mancante del puzzle che lascia un vuoto incolmabile.

Ma Battisti non è solo. Anche Francesco De Gregori ha i suoi scheletri nell’armadio digitale. Tra gli album spariti o che hanno avuto una presenza molto discontinua sulle piattaforme streaming c’è “Miramare 19.4.89”, un disco del 1989 che porta nel titolo stesso un luogo e una data, come una lettera spedita da un’epoca precisa. Ed è proprio questo che è: una fotografia impietosa dell’Italia di fine anni Ottanta, a tre anni da Tangentopoli, quando il Pentapartito sembrava eterno e il craxismo dettava legge.

“Miramare 19.4.89” è un album anomalo nella discografia degregoriana, quasi un manifesto politico mascherato da canzone d’autore. De Gregori, reduce dal mezzo passo falso di “Terra di nessuno” (1987) – altro album che ha giocato a nascondino con le piattaforme digitali – stavolta vuole lasciare il segno. E lo fa con testi taglienti come lame, che raccontano di bambini cresciuti troppo in fretta che uccidono o vengono uccisi per un paio di scarpe firmate, di professionisti in giacca e cravatta che sotto l’apparente ordine celano cuori oscuri, di mari che non riescono più a respirare. In “Dr. Dobermann” si rivolge a un medico ipocrita che in pubblico si dichiara obiettore di coscienza e in privato pratica aborti clandestini – una denuncia della malasanità che suona attualissima anche oggi. “300.000.000 di topi” prende spunto da una notizia letta dal cantautore sui roditori in Italia per parlare di altri topi, più pericolosi, “mangiatori di cuori” che crescono e si moltiplicano nell’ombra della corruzione. Un album ante Tangentopoli che però ne racconta i particolari, che solo matti e poeti potevano raccontare prima del grande crollo.

L’album si chiude con la bellissima “Lettera da un cosmodromo messicano”, immagini sospese e leggere che offrono un momento di respiro dopo la cavalcata apocalittica. Ma è proprio questa lucidità analitica, questa capacità di fotografare senza filtri le piaghe del presente, che forse ha reso “Miramare” un disco scomodo, non sempre facilmente reperibile nel limbo digitale. Un disco per pensare e per parlare, non certo da mettere in sottofondo mentre si fa jogging.

Anche Ivano Fossati, il cantautore genovese considerato uno degli autori più raffinati e intellettuali della scena italiana, ha visto alcuni dei suoi album più significativi sparire o giocare a nascondino con le piattaforme streaming. “Decadancing” del 2011 e “Musica Moderna” del 2008 hanno avuto periodi di assenza o disponibilità parziale che hanno creato frustrazione nei fan. “Decadancing”, in particolare, ha un peso emotivo particolare perché è stato annunciato come l’ultimo album di Fossati, il suo testamento artistico prima del ritiro dalle scene. Un disco che parla di “danzare sulle rovine della civiltà”, come recita la title track, una riflessione amara sullo stato dell’Italia contemporanea. Il brano più bello è probabilmente “Laura e l’avvenire”, esempio perfetto della capacità di Fossati di intrecciare il personale e il politico, il privato e il pubblico, con una delicatezza che pochi altri sanno raggiungere. Un disco che, riascoltato oggi ha la stessa capacità predittiva di Miramare o, forse, semplicemente, la stessa voglia di chiamare le cose con il proprio nome.

“Musica Moderna”, uscito tre anni prima, è invece un album che segna il ritorno di Fossati a sonorità più rock e immediate dopo la fase sperimentale degli anni Novanta, quando aveva esplorato musiche etniche e orchestrazioni classiche. Undici canzoni che parlano di amore, disillusione, memoria, con quella voce struggente – che è il marchio di fabbrica di Fossati. Un album che meritava maggiore visibilità e che invece si è trovato a fare i conti con i capricci della distribuzione digitale.

Il problema con questi dischi non è sempre una questione di assenza totale dalle piattaforme. A volte è più sottile, più frustrante: cerchi un album che ricordi benissimo e scopri che mancano alcune tracce, o che è disponibile solo in certe versioni rimasterizzate che suonano diverse dall’originale, o che improvvisamente è sparito per riapparire mesi dopo senza preavviso. Un valzer digitale che lascia spiazzati e che fa rimpiangere i tempi in cui bastava andare in un negozio di dischi e chiedere il CD che volevi.

Le cause di questi fenomeni sono sempre le stesse: contenziosi sui diritti d’autore, passaggi di proprietà tra case discografiche, accordi mal gestiti, editori che litigano, eredi che dissentono. Mentre noi pensiamo che la musica sia “nell’aria” e disponibile ovunque con un click, dietro le quinte c’è un ginepraio burocratico degno della Divina Commedia. Nel caso di Battisti, per esempio, la vedova Grazia Letizia Veronese ha a lungo rispettato la volontà del marito di non mettere la sua musica in streaming. Solo dopo anni di trattative con Sony Music è stato raggiunto l’accordo per i dodici album con Mogol. Ma per quelli con Panella? Il muro è ancora lì, solido come sempre, e nessuno sa quando o se cadrà.

C’è qualcosa di profondamente ironico nel fatto che, nell’era della disponibilità totale, alcuni dei capolavori della musica italiana siano più difficili da trovare di un vinile raro negli anni Settanta. Almeno allora bastava andare dal negoziante e ordinarlo. Oggi puoi avere accesso a 100 milioni di brani, ma proprio quello che cerchi – proprio quel disco di De Gregori che hai consumato da ragazzo, proprio quell’album di Fossati che ti ha accompagnato in un momento importante della tua vita – no, quello è in un limbo legale. Oppure c’è, ma solo per pochi mesi, poi sparisce di nuovo senza spiegazioni.

Il paradosso è che la tecnologia che avrebbe dovuto rendere tutta la musica accessibile a tutti ha creato nuove forme di scarsità. Non si tratta più di copie fisiche esaurite o dischi fuori catalogo: si tratta di file digitali che esistono, che potrebbero essere disponibili con un click, ma che rimangono bloccati da questioni che con la musica hanno poco a che fare. E così continuiamo a cercare questi album fantasma su Spotify, con la stessa ostinazione di chi cerca l’Arca dell’Alleanza o il Santo Graal. Perché in fondo, anche questo è rock’n’roll: la ricerca di qualcosa che non dovrebbe essere così difficile da trovare, ma che proprio per questo diventa ancora più prezioso.

Forse questi album fantasma ci stanno insegnando qualcosa. Ci ricordano che possedere la musica – averla fisicamente, su vinile o CD – ha ancora un valore. Quando tutto è in streaming, tutto può sparire da un momento all’altro. Ma un disco nella tua libreria rimarrà lì, sempre disponibile, immune dai capricci degli editori e dai contenziosi legali. Nel frattempo, noi appassionati continueremo a sperare. Sperare che un giorno anche i cinque album di Battisti con Panella vedranno la luce digitale. Sperare che “Miramare 19.4.89” e tutti gli altri dischi perduti tornino stabilmente disponibili. E fino ad allora, lunga vita ai negozi di dischi rimasti aperti e ai giradischi impolverati. Sono gli ultimi testimoni di un’epoca in cui la musica era qualcosa che si possedeva davvero, non solo qualcosa che si ascoltava in affitto.

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