Memoria e Futuro
Il Re è Nudo (e Ha Freddo)
“Now is the winter of our discontent” – così inizia il celebre monologo di Riccardo III, il duca di Gloucester che si fa re attraverso l’inganno e la violenza. Ma se Shakespeare scriveva dell’inverno che diventa “gloriosa estate” per la casa di York, l’inverno del malcontento di Donald Trump sembra non conoscere primavera, a quasi un anno dalla vittoria elettorale del novembre 2024 che lo ha riportato alla Casa Bianca.
Dieci mesi dopo il suo ritorno al potere, il presidente degli Stati Uniti si trova accerchiato su più fronti: la Corte Suprema che mette in discussione i suoi dazi, le richieste di grazia respinte con glaciale cortesia diplomatica, e soprattutto lo spettro di Jeffrey Epstein che riaffiora con documenti sempre più compromettenti. Il consenso popolare crolla: solo il 41% approva il suo operato, mentre il 49% lo disapprova secondo l’ultimo sondaggio Emerson College. Ancora più preoccupante, l’approvazione tra i suoi stessi elettori repubblicani è scesa dal 91% di gennaio al 79%, mentre la disapprovazione tra gli indipendenti è salita dal 44% al 51%.
Alla Corte Suprema, durante le udienze del 5 novembre sui dazi imposti unilateralmente da Trump utilizzando l’International Emergency Economic Powers Act, persino i giudici conservatori hanno mostrato un profondo scetticismo sulla legalità della sua politica commerciale. Il Chief Justice John Roberts ha messo il dito nella piaga: i dazi sono sostanzialmente tasse, e le tasse sono “il potere fondamentale del Congresso”, non del presidente. La Justice Elena Kagan ha osservato con sarcasmo che gli Stati Uniti sembrano vivere “in emergenza… praticamente tutto il tempo, con circa metà del mondo”. Ma è stato il giudice conservatore Neil Gorsuch a porre la domanda più devastante: “State dicendo che c’è un’autorità intrinseca in politica estera per regolare il commercio, i dazi e persino la guerra?” – un’accusa nemmeno troppo velata di cesarismo presidenziale. Trump ha già raccolto quasi 195 miliardi di dollari attraverso questi dazi, promessi come “dividendi tariffari” da 2000 dollari. Ma se la Corte dovesse dichiarare illegali questi dazi, l’amministrazione dovrebbe rimborsare centinaia di miliardi alle aziende.
E ieri, 12 novembre, una giornata che potrebbe segnare l’inizio della fine della seconda presidenza Trump, il presidente ha inviato una lettera formale al presidente israeliano Isaac Herzog chiedendo la grazia per il primo ministro Benjamin Netanyahu, sotto processo per corruzione dal 2020. “È mio onore scriverle in questo momento storico”, inizia la lettera. “Chiedo formalmente che lei conceda la piena grazia a Benjamin Netanyahu, che è stato un formidabile e decisivo primo ministro di guerra”. Trump definisce il processo una “persecuzione politica e ingiustificata”. Ma Herzog ha risposto con la freddezza della diplomazia istituzionale: “Il presidente nutre grande rispetto per il presidente Trump, tuttavia, chiunque richieda una grazia presidenziale deve presentare una richiesta formale secondo le procedure stabilite”. In altre parole: Netanyahu stesso, o un familiare stretto, deve ammettere implicitamente la colpa – cosa che il primo ministro, che continua a proclamare la sua innocenza, non può fare senza autodistruggersi politicamente. Il leader dell’opposizione israeliana Yair Lapid ha colto l’occasione: “La legge israeliana stabilisce chiaramente che la prima condizione per ricevere una grazia è l’ammissione di colpa e l’espressione di rimorso”.
Sul fronte Epstein il malcontento si trasforma in qualcosa di più torbido. Sempre ieri, i Democratici della House Oversight Committee hanno rilasciato tre email dall’archivio di Jeffrey Epstein che menzionano Trump, seguite da un rilascio massiccio di oltre 20.000 documenti da parte dei Repubblicani del comitato. In un’email del 2011 a Ghislaine Maxwell, Epstein scrive: “Voglio che tu realizzi che il cane che non ha abbaiato è Trump… [nome vittima redatta] ha passato ore a casa mia con lui, non è mai stato menzionato una volta”. Ancora più esplicita un’email del 2019: “Trump ha detto che mi ha chiesto di dimettermi [dal Mar-a-Lago], mai stato membro. Naturalmente lui sapeva delle ragazze, perché ha chiesto a Ghislaine di smettere”. E in un’altra del 2018: “Vedi, io so quanto è sporco Donald”.
La Casa Bianca ha reagito accusando i Democratici di aver “selettivamente fatto trapelare” le email “per creare una narrativa falsa”. Ma il problema per Trump non è tanto ciò che le email provano, quanto ciò che suggeriscono: una relazione molto più stretta con Epstein di quanto mai ammesso pubblicamente. Il timing non potrebbe essere peggiore: proprio ieri, mercoledì 12 novembre, giornata che ha concentrato un fuoco incrociato devastante su più fronti, la neoeletta deputata democratica Adelita Grijalva ha fornito la 218esima firma decisiva su una “discharge petition” che forzerà la Camera a votare sul rilascio completo dei fascicoli del Dipartimento di Giustizia su Epstein. In risposta, l’amministrazione Trump ha convocato un incontro d’emergenza nella Situation Room con la deputata repubblicana Lauren Boebert, nel disperato tentativo di fermare il voto.
I numeri delle rilevazioni del consenso raccontano una storia che sembra destinata ad una fine implacabile. Il sondaggio AP-NORC rivela che solo il 36% degli americani approva la gestione generale di Trump della presidenza, mentre il 62% disapprova. Ancora peggio sulla gestione del governo: solo il 33% approva, in calo dal 43% di marzo. Tra i repubblicani, l’approvazione sulla gestione governativa è scesa dal 81% di marzo al 68%. Tra gli indipendenti, dal 38% al 25%. Sull’economia, Trump registra un rating di approvazione netta di -17,6 punti, sul commercio -17,6, sull’inflazione un devastante -27,5. Il sondaggio Morning Consult è ancora più brutale: l’approvazione netta di Trump è a -10 punti, in calo da -5 di fine ottobre. È il livello più basso del suo secondo mandato. Trump ha passato 21 giorni consecutivi senza registrare un singolo rating di approvazione positivo in nessun sondaggio importante.
In più, le elezioni del 5 novembre hanno dato ai Democratici vittorie schiaccianti, oltre che a New York, in Virginia e New Jersey, con margini ben superiori a quelli di Harris su Trump nel 2024.
“TRUMP NON ERA SULLA SCHEDA ELETTORALE”, ha twittato (il maiuscolo è suo) Trump la sera del 5 novembre, citando “sondaggisti” non meglio identificati. Una classica mossa: negare la responsabilità, attribuire la sconfitta a fattori esterni. Ma il messaggio degli elettori è cristallino: gli americani stanno perdendo la pazienza con un presidente che aveva promesso di abbassare i costi della vita e che invece ha imposto dazi che hanno fatto aumentare i prezzi, che aveva promesso trasparenza sui file di Epstein e che ora fa di tutto per bloccarli.
Eppure, paradossalmente, potrebbero essere proprio i Democratici a salvare Trump dalla china rovinosa. Proprio quando sembravano avere la situazione in mano, dopo 43 giorni di shutdown governativo che li aveva visti vincere le elezioni del 5 novembre con margini schiaccianti, otto senatori democratici hanno votato con i repubblicani per riaprire il governo senza ottenere alcuna garanzia sull’estensione dei sussidi per l’Obamacare – la questione che aveva causato lo shutdown. Un gruppo di moderati guidati da Tim Kaine, Angus King e Maggie Hassan ha accettato un “handshake deal”, un accordo basato sulla stretta di mano, dopo che proprio le vittorie elettorali avevano rafforzato la posizione negoziale democratica.
La base progressista è esplosa. Il deputato Ro Khanna, che considera una corsa presidenziale, ha chiesto la sostituzione del leader Chuck Schumer: “Questo è un momento decisivo per il partito. Abbiamo bisogno di nuovi volti con nuove idee audaci”. La rabbia è palpabile: dopo aver dimostrato nelle elezioni che gli elettori erano dalla loro parte sulla questione del costo della vita, i Democratici si sono arresi proprio nel momento della loro maggiore forza negoziale.
A differenza del Riccardo III di Shakespeare, che trasformò l’inverno del suo malcontento in una “gloriosa estate” attraverso l’astuzia e la violenza, Trump sembra comunque intrappolato in un inverno che si fa sempre più gelido. Ma sono proprio gli errori tattici dei suoi avversari – la capitolazione democratica sullo shutdown, l’incapacità di mantenere l’unità proprio quando avevano vinto le elezioni – che potrebbero permettergli di frenare la china. Come diceva ancora Shakespeare: “Ora sono i giorni cupi e disperati”. Per Trump, l’orizzonte rimane un lungo, freddissimo inverno. Ma se i Democratici continuano a soccombere alle loro divisioni interne nel momento della vittoria, questo malcontento potrebbe non trasformarsi nella débâcle che tutti predicono. Il re di carta, fragile e assediato, potrebbe sopravvivere non per la propria forza, ma per la debolezza altrui. E l’inverno, quello vero, potrebbe rivelarsi meno fatale del previsto – non per merito suo, ma per demerito dei suoi nemici.
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