Memoria e Futuro

Il rotolo degli appelli

di Marco Di Salvo 1 Settembre 2025

La storia degli appelli intellettuali in Italia presenta una singolare continuità tra epoche apparentemente diverse: dagli anni di piombo alle polemiche cinematografiche contemporanee, si ripete lo stesso copione di mobilitazioni che nascono generose e finiscono nel ridicolo dell’abiura.

Negli anni Settanta e Ottanta, quando il terrorismo insanguinava l’Italia, fior di intellettuali, scrittori e artisti si mobilitarono con appelli che oscillavano pericolosamente tra la condanna della violenza e la ricerca di “soluzioni politiche” al fenomeno brigatista. Erano i tempi in cui personalità come Umberto Eco, Alberto Moravia, un giovane Paolo Mieli e perfino alcuni registi firmavano documenti che, pur condannando gli omicidi, invocavano “dialogo” e “comprensione delle ragioni profonde” del terrorismo. L’appello più emblematico fu quello del 1978 per Aldo Moro, dove accanto a sacrosante richieste di trattative si insinuavano pericolose giustificazioni ideologiche.

Il meccanismo era sempre identico: di fronte a eventi drammatici, il mondo intellettuale sentiva il bisogno compulsivo di “dire la sua”, producendo documenti spesso confusi, ideologicamente compromessi e praticamente inutili. Come se la firma di un poeta o di un attore potesse modificare le dinamiche del terrorismo nazionale o convincere assassini ideologizzati a deporre le armi.

Decenni dopo, lo stesso riflesso pavloviano si è manifestato nell’appello per escludere due attori dalla Biennale di Venezia, accusati di posizioni controverse su conflitti internazionali. Anche qui, la solita processione di firmatari illustri, la stessa urgenza moralizzatrice, la medesima illusione che una petizione possa risolvere questioni geopolitiche complesse.

Ma il vero interesse di questi fenomeni sta nel loro epilogo: i “pentimenti” dei sottoscrittori. Negli anni Ottanta, quando divenne chiaro che certi appelli erano stati strumentalizzati o avevano prodotto effetti opposti a quelli desiderati, iniziò la sfilza delle ritrattazioni. Intellettuali che avevano invocato “soluzioni politiche” al terrorismo si affrettarono a precisare, distinguere, ricontestualizzare le loro posizioni, spesso con imbarazzanti contorsioni retoriche.

Lo stesso copione si è ripetuto con l’appello veneziano: non appena le critiche si sono fatte più severe e i riflettori mediatici più impietosi, alcuni firmatari hanno iniziato a prendere le distanze, a “chiarire” il loro pensiero, a sostenere di essere stati fraintesi o di non aver letto attentamente il testo firmato.

Questi pentimenti rivelano la vera natura di tali iniziative: gesti più esibizionistici che politici, dove la firma conta più del contenuto, dove l’importante è apparire “impegnati” indipendentemente dalla coerenza o dall’efficacia. L’intellettuale che firma l’appello non si assume davvero la responsabilità delle sue parole, ma cerca piuttosto una forma di autolegittimazione pubblica.

Il paradosso è stridente: le stesse personalità che pretendono di guidare l’opinione pubblica su questioni cruciali dimostrano, con i loro ripensamenti, di non aver riflettuto seriamente sulle implicazioni delle proprie posizioni. Come può chi cambia idea dopo aver letto i commenti sui social media pretendere di orientare il dibattito nazionale?

Questa dinamica rivela un vizio profondo della cultura italiana: la tendenza a confondere visibilità mediatica con autorevolezza morale, presenza scenica con competenza politica. Il risultato sono appelli destinati all’irrilevanza pratica ma capaci di alimentare polemiche sterili, mentre i problemi reali – dal terrorismo ai conflitti internazionali – richiederebbero ben altre forme di impegno.

La lezione è semplice: quando un appello ha bisogno di pentiti, significa che non avrebbe mai dovuto esistere.

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