Memoria e Futuro

Illusi e mazziati

di Marco Di Salvo 24 Novembre 2025

Appena pochi giorni fa, l’ex primo ministro conservatore John Major ha lanciato un devastante attacco alla Brexit durante un intervento alla London School of Economics, definendola “un atto di follia collettiva” e dichiarando che “in tutto il mondo, i nostri nemici hanno festeggiato e i nostri amici si sono disperati”. Major ha accusato i principali sostenitori della Brexit come Boris Johnson e Michael Gove di aver diffuso “disinformazione” per sostenere l’uscita dall’Unione Europea, affermando che la Brexit “ha lasciato il nostro Paese più povero, più debole e divorziato dal mercato di libero scambio più ricco che la storia abbia mai visto”. Non è il solo pentito tra le fila conservatrici. Anche lord Michael Howard, ex leader conservatore che aveva sostenuto l’uscita dall’Ue, pur ribadendo di non rimpiangere il suo voto, si è opposto con forza ai tentativi del governo Johnson di violare gli accordi internazionali, dichiarando di essere “sgomento” che il suo partito fosse pronto a infrangere la parola data. Questi ripensamenti arrivano troppo tardi per cambiare il corso degli eventi, ma testimoniano la portata di una scelta che ha spaccato il Paese e i cui effetti continuano a manifestarsi in modo sempre più netto.

A quasi dieci anni dal referendum che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, il Paese si trova a fare i conti con un bilancio che appare inevitabilmente contraddittorio. Nel giugno del 2016 Londra, capitale finanziaria e culturale, fu la città che più si schierò per restare: la City temeva di perdere accesso privilegiato ai mercati europei e di vedere ridotto il proprio ruolo globale. Le regioni rurali e industriali in declino, invece, votarono in maggioranza per il “Leave”, convinte che la Brexit avrebbe ridato forza e autonomia a una nazione che non poteva più contare sull’impero ma sperava almeno in una rinascita economica e sociale.

Dieci anni dopo, il paradosso è evidente. Londra ha continuato a prosperare, diventando la città più costosa al mondo, con New Bond Street in testa alla classifica degli affitti commerciali di lusso e con un costo della vita che la rende sempre più inaccessibile ai ceti medi. La capitale ha saputo adattarsi, mantenendo il suo ruolo di hub finanziario globale e beneficiando di investimenti e attrattività internazionale. Al contrario, molte delle aree che avevano riposto fiducia nello slogan “Take back control” si trovano oggi intrappolate in una crisi sociale ed economica che sembra non avere fine. È l’ennesima prova di come, nelle crisi, i ricchi riescano a trovare strategie di adattamento, mentre i poveri vanno sempre più a fondo.

Gli ultimi dati della Joseph Rowntree Foundation e del Parlamento britannico parlano chiaro: 14,3 milioni di persone vivono in povertà nel Regno Unito nel 2024‑25, pari al 21% della popolazione, con punte del 30‑35% di povertà infantile nelle regioni del Nord Est, Nord Ovest, Yorkshire e Midlands. In queste aree, che avevano creduto nella promessa di rinascita della Brexit, la realtà è fatta di salari stagnanti, servizi pubblici ridotti e un ricorso crescente ai food bank. Sei milioni di persone vivono in “very deep poverty”, con redditi ben al di sotto della soglia minima. Il divario tra chi ha e chi non ha si è ampliato, e la Brexit ha contribuito a rendere più fragili proprio quelle comunità che speravano di trarne beneficio.

Il governo Starmer ha cercato di ridurre gli attriti con l’Unione Europea attraverso un “Brexit reset”, con accordi tecnici su commercio, energia e mobilità giovanile. Ma per le comunità rurali e industriali questo non ha portato benefici tangibili. La promessa di un riscatto nazionale si è tradotta in un impoverimento quotidiano, mentre Londra ha consolidato la sua posizione di beneficiaria della globalizzazione. La narrativa della sovranità assoluta ha lasciato spazio a un pragmatismo che riconosce la necessità di riallinearsi con Bruxelles, ma senza rimettere in discussione formalmente il referendum.

Il bilancio, dieci anni dopo, è amaro: la Brexit non ha favorito gli interessi britannici in modo diffuso. Ha rafforzato alcuni settori della capitale, ma ha indebolito le regioni che avevano creduto nella promessa di rinascita. La Gran Bretagna del 2016 era un Paese diviso ma fiducioso; quella del 2025 è un Paese che deve fare i conti con una scelta che ha prodotto più costi che benefici e che ha accentuato le disuguaglianze interne. Il paradosso resta scolpito: la città che voleva restare ha beneficiato, mentre le regioni che volevano uscire hanno perso.

Se si guarda al quadro politico, il referendum del 2016 fu presentato come un momento di liberazione. Oggi, invece, la politica sembra muoversi verso un pragmatismo che riconosce la necessità di riallinearsi con l’Europa su vari dossier. Non si parla di tornare indietro formalmente, ma di ridurre i danni e di salvare l’autonomia simbolica. Gli stessi sondaggi mostrano che la maggioranza dei cittadini considera la Brexit un errore e desidera legami più stretti con l’Unione. È un segnale che la retorica identitaria ha lasciato spazio a un giudizio concreto sui risultati.

Ma la frustrazione sociale non si traduce in un ritorno al “Remain”. Al contrario, alimenta nuove derive politiche. Gli ultimi sondaggi indicano che Reform UK, il partito di Nigel Farage, ha superato i Conservatori e in prospettiva potrebbe diventare la forza più votata alle prossime elezioni, con percentuali che oscillano tra il 32% e il 36%. In alcuni scenari, Reform UK sarebbe in grado di ottenere una maggioranza assoluta alla Camera dei Comuni, mentre i Conservatori precipiterebbero a livelli storicamente bassi. E questo nonostante Nathan Gill, 52 anni, ex leader di Reform UK in Galles, sia stato condannato a 10 anni e mezzo di carcere per aver accettato tangenti in cambio di dichiarazioni filo-russe al Parlamento europeo e ai media ucraini. Gill era un fedelissimo di Farage, avendo ricoperto ruoli di primo piano in UKIP, Brexit Party e Reform UK fino alle dimissioni nel 2021. È un dato che racconta la rabbia e la delusione delle classi popolari, impoverite e disilluse, che non si rivolgono a chi propone un ritorno all’Europa, ma a chi promette nuove rotture, nonostante tutto.

Questa dinamica è la conferma di un ciclo che si ripete: nelle crisi, i ricchi si adattano e prosperano, i poveri si impoveriscono e cercano risposte in slogan radicali. Londra ha saputo reinventarsi, mantenendo il suo ruolo di capitale globale. Le regioni rurali e industriali, invece, hanno visto peggiorare le loro condizioni e si sono ritrovate senza prospettive. La Brexit doveva essere il simbolo di un nuovo inizio; dieci anni dopo appare piuttosto come il segno di una crisi che non si è mai chiusa.

Il “Brexit reset” del governo Starmer è un tentativo di ridurre i danni, ma non basta a colmare il divario tra Londra e il resto del Paese. La capitale continua a correre, mentre le periferie arranchano. La promessa di “riprendere il controllo” si è tradotta in un controllo amministrativo sulle frizioni con Bruxelles, non sui destini delle comunità che avevano creduto nella rinascita. La crisi del costo della vita e la crescita della povertà dimostrano che il dividendo Brexit non è mai arrivato.

Dieci anni dopo, il Regno Unito è un Paese che deve fare i conti con una scelta che ha prodotto più costi che benefici. Londra prospera, le regioni rurali si impoveriscono, e la politica cerca di contenere i danni senza rimettere in discussione il referendum. È un bilancio che racconta una verità amara: la Brexit non ha favorito gli interessi britannici, ha accentuato le disuguaglianze e ha alimentato nuove derive politiche. Il futuro appare incerto, e la rabbia sociale rischia di trasformarsi in consenso per chi promette nuove rotture.

Se la promessa era “riprendere il controllo”, dieci anni dopo il controllo è amministrativo, non sociale. È la gestione di attriti e dossier, non la guida di un destino collettivo. E il paradosso resta scolpito: la città che voleva restare ha beneficiato, mentre le regioni che volevano uscire hanno perso.

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