
Memoria e Futuro
In inglese, Truce
Oggi che sembra improvvisamente cambiata l’aria in Medio Oriente mi viene in mente il fatto che la traduzione in inglese di tregua è truce. Per le connessioni sinaptiche che vanno (spesso) per conto loro mi trovo a pensare che, non raramente, le tregue non fluiscano naturalmente nella pace (anzi) e proprio il caso israeliano è sintomatico di quanto mi trovo a pensare, banalmente.
La tregua non è pace. È il respiro trattenuto della guerra, il momento in cui i fucili tacciono ma le mani non lasciano l’impugnatura. È l’inganno semantico più pericoloso della nostra epoca: chiamiamo “processo di pace” ciò che è semplicemente la gestione negoziata del conflitto, la sua amministrazione burocratica, la sua cristallizzazione in uno stato permanente di non-guerra.
La retorica internazionale ci ha abituati a pensare alla tregua come a un passo verso la pace, una fase necessaria, un momento di raffreddamento che permetterebbe il dialogo. Ma questa visione progressista del conflitto – prima la guerra, poi la tregua, infine la pace – è spesso una mistificazione. La tregua può essere, ed è frequentemente, la continuazione della guerra con altri mezzi: la riorganizzazione delle forze, il consolidamento delle conquiste, la preparazione del prossimo round.
Durante la tregua si costruiscono insediamenti, si modificano confini de facto, si creano “fatti sul terreno” che poi diventeranno innegabili. La tregua permette di fare lentamente, burocraticamente, legalmente, ciò che la guerra faceva rapidamente e cruentemente. Il risultato finale può essere identico: la sottomissione di un popolo, l’espropriazione della terra, la cancellazione dei diritti. Ma la tregua ha un vantaggio per chi la impone: non genera le immagini scomode della guerra aperta, non mobilita l’opinione pubblica internazionale con la stessa urgenza.
Esiste una violenza peculiare della tregua: è la violenza della normalizzazione dell’ingiustizia. Quando la guerra si ferma ma l’occupazione continua, quando cessano i bombardamenti ma prosegue l’assedio, quando tacciono le armi ma parlano le demolizioni di case, i posti di blocco, le restrizioni alla libertà di movimento – questa non è pace, è tregua. Ed è forse più insidiosa della guerra stessa, perché chiede alle vittime di essere grate per la pausa, di accettare l’inaccettabile come “realistico”, di rinunciare alla giustizia in nome della “stabilità”.
La comunità internazionale spesso benedice queste tregue con il linguaggio della diplomazia: “cessate il fuoco”, “accordi di sicurezza”, “zone cuscinetto”. Ma dietro questi termini si nasconde spesso il congelamento di uno status quo profondamente ingiusto. La tregua diventa così lo strumento per rendere permanente ciò che la guerra aveva reso possibile.
Nel suo ultimo libro, lo storico israeliano Ilan Pappé, figura notoriamente controversa (ma questo è un momento in cui abbiamo disperato bisogno di chi pensa oltre gli steccati) ha sfidato radicalmente le illusioni che hanno dominato decenni di “processi di pace” in Palestina-Israele. In “La fine di Israele – Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina” (è il titolo stupidamente acchiappa proPal dell’editore Fazi, visto che l’originale era “Israel on the Brink: And the Eight Revolutions That Could Lead to Decolonization and Coexistence” ovvero “Israele sull’orlo del baratro: e le otto rivoluzioni che potrebbero portare alla decolonizzazione e alla coesistenza”), Pappé analizza come le strutture di potere abbiano mantenuto lo status quo attraverso quella che è essenzialmente una tregua permanente mascherata da negoziato.
Pappé sostiene che la soluzione a due stati – il mantra della comunità internazionale da Oslo in poi – è diventata essa stessa una forma di tregua perpetua: un orizzonte continuamente evocato ma mai raggiunto, che serve principalmente a legittimare la continuazione dell’occupazione. Non è un percorso verso la pace, ma il meccanismo che permette alla colonizzazione di procedere mentre si finge di negoziare.
Lo storico israeliano propone invece un cambio radicale di paradigma: riconoscere la realtà di uno stato unico già esistente – ma che nega diritti uguali a tutti i suoi abitanti – e lottare per trasformarlo in uno stato democratico per tutti i cittadini, indipendentemente dall’etnia o dalla religione. Questa prospettiva, che Pappé definisce come l’unica soluzione decoloniale possibile, richiederebbe non una tregua ma una vera trasformazione: lo smantellamento delle strutture di privilegio etnico e la creazione di una società basata sull’uguaglianza.
Come possiamo distinguere una vera pace da una tregua travestita? La pace richiede giustizia, riconoscimento reciproco, riparazione delle ingiustizie. La pace trasforma le relazioni di potere, non le congela. La pace permette ai bambini di entrambe le parti di immaginare un futuro comune, non semplicemente l’assenza temporanea di bombe.
La tregua, al contrario, mantiene intatte le gerarchie che hanno generato il conflitto. Preserva i rapporti di dominazione semplicemente rendendoli più silenziosi, più amministrativi, meno visibilmente cruenti. La tregua chiede ai deboli di accettare la propria debolezza, ai vinti di digerire la sconfitta, agli occupati di convivere con l’occupazione. È quella che oggi viene celebrata non è la fine della guerra a Gaza ma l’ennesima tregua.
Forse il compito più difficile è avere il coraggio di rifiutare tregue ingiuste, di non chiamare pace ciò che pace non è. Questo non significa auspicare la guerra – al contrario. Significa riconoscere che alcune tregue sono trappole che impediscono la vera pace, che normalizzano l’ingiustizia e la rendono infinita.
È ciò che fa, con coraggio, nella seconda parte del suo libro, Pappé, che propone un percorso di giustizia riparativa ispirato al modello sudafricano, il riconoscimento del diritto al ritorno dei rifugiati e una ridefinizione dell’identità ebraica in chiave non-coloniale. L’ultima sezione, ambientata nel 2048, immagina una Palestina unita e decolonizzata, dove israeliani e palestinesi vivono con pari diritti.
Questa non è una tregua. È pace. Pace vera, che richiede il confronto con le ingiustizie storiche, la rinuncia ai privilegi, la costruzione di una cittadinanza comune. È una transizione che va innanzitutto a beneficio delle vittime dell’oppressione e degli spargimenti di sangue, ma anche di coloro che temono che perdere la propria posizione di privilegio e superiorità li trasformerà in vittime.
La lezione che ci viene da pensatori controversi come Pappé è che dobbiamo avere l’audacia di immaginare soluzioni realmente trasformative, anche quando sembrano “irrealistiche” agli occhi della diplomazia convenzionale. Perché spesso ciò che viene definito “realistico” è semplicemente la perpetuazione dell’ingiustizia con altri mezzi.
La pace vera richiede più coraggio della tregua. Richiede di affrontare le cause profonde dei conflitti, di ridistribuire il potere, di riconoscere torti storici. La tregua ci chiede solo di abbassare la voce e aspettare. Ma aspettare cosa? Il prossimo ciclo di violenza, la prossima generazione che erediterà lo stesso conflitto congelato, la stessa ingiustizia amministrata?
Non ogni silenzio delle armi è pace. A volte è solo il rumore della guerra che cambia frequenza.
Devi fare login per commentare
Accedi