
Memoria e Futuro
Industriarsi nel bilancio
Chi vince in una corsa al passo del gambero – chi retrocede più velocemente o chi lo fa più lentamente? Questa domanda paradossale, che mi tormentava da ragazzo, risuona oggi con inquietante attualità osservando le dinamiche economiche europee, in particolare il recente, celebrato superamento del Pil francese da parte dell’Italia. Un sorpasso che assomiglia più a due corridori che indietreggiano, solo che uno, la Francia, in questo momento sta arretrando a un ritmo leggermente più sostenuto del nostro.
Le difficoltà francesi sono reali: un debito pubblico oltre il 110% del Pil, un deficit che sfora i patti di stabilità, e una crescita anemica che ha costretto Parigi a misure di austerity improprie. Sono i classici vincoli di bilancio che affliggono economie mature, alle prese con un welfare generoso ma costoso e una pressione fiscale elevata. L’Italia (e soprattutto i suoi patrioti), dal canto suo, osserva questo scenario con un misto di sollievo e apprensione. La maggioranza di governo, infatti, brandisce il dato del Pil come un trofeo, una prova della bontà della propria gestione. Tuttavia, questa vittoria di Pirro rischia di mascherare i nostri mali cronici, ancor più profondi.
Il vero tallone d’Achille italiano, infatti, non è la finanza pubblica in sé, ma la struttura industriale malata e la cronica assenza di una politica industriale degna di questo nome.
Qui, permettetemi una battuta amara, dopo quasi tre anni di governo Meloni: non è che nel nostro paese manchi una visione per l’industria a causa di Adolfo Urso ministro, ma c’è Adolfo Urso ministro proprio perché manca una politica industriale.
I dati parlano chiaro: le ore lavorate in Italia faticano a tornare ai livelli pre-pandemici, segno di un mercato del lavoro ancora fragile e di una produttività stagnante. La nostra base produttiva, fatta di piccole e medie imprese spesso eroiche, soffre la concorrenza globale, la transizione digitale ed ecologica, e la cronica carenza di investimenti in ricerca e sviluppo. Manca una regia nazionale che indirizzi le risorse – quelle poche disponibili – verso settori ad alto valore aggiunto, le infrastrutture materiali e digitali, e la formazione di competenze avanzate.
E poi c’è Giorgetti. Il vero, drammatico vulnus della politica economica italiana non sta in ciò che il Ministro dell’Economia fa, ma in ciò che ostinatamente evita di fare. La gestione rigorosa dei conti pubblici, il rispetto dei parametri europei e la riduzione del deficit sono diventati non solo l’obiettivo primario, ma l’unico orizzonte dell’azione di governo (d’altronde, come aspettarsi qualcosa di diverso da chi è ministro da più di quattro anni e governa in perfetta continuità con la sua esperienza”tecnica” draghiana?). In questo quadro, la riduzione strutturale degli investimenti produttivi—un trend in atto da diverse legislature e acuito nell’ultimo periodo—non è una dolorosa conseguenza collaterale, ma un calcolato, e rischiosissimo, “trucco contabile”.
Per abbattere di qualche decimale il rapporto deficit/Pil, si opera sistematicamente la scelta politica di tagliare la linfa vitale del futuro: i fondi per la ricerca e l’innovazione, gli incentivi per la transizione ecologica e digitale delle imprese, le risorse per le infrastrutture fisiche e immateriali. È un’operazione di financial engineering che risolve un problemino tecnico di oggi—presentare un bilancio apparentemente più sano a Bruxelles e ai mercati—uccidendo metodologicamente la competitività di domani. Si sta, in pratica, alleggerendo la zattera per affrontare la tempesta gettando in mare i viveri e i remi, illudendosi di averla resa più agile.
Le strategie mancanti sono tutte quelle che esulano dalla pura e semplice gestione dell’esistente. Manca in modo eclatante, per un governo che si definisce a ogni piè sospinto amico delle imprese produttive, una strategia fiscale coraggiosa che, al di là di taglietti alle tasse concessi per garantire i garantiti del proprio elettorato, rivoluzioni il sistema per favorire gli investimenti privati. Servirebbero un’IRES azzerata per gli utili reinvestiti in ricerca e sviluppo, superammortamenti veramente appetibili per l’acquisto di beni strumentali, e un credito d’imposta stabile e certo per l’assunzione di ricercatori e personale altamente qualificato.
Manca, ancor più criticamente, una regia pubblica sugli investimenti strategici. Il Ministro si limita a gestire la finanza, non indirizza il capitale. Dove è il piano nazionale per le filiere critiche, come quelle dell’energia rinnovabile, dei semiconduttori o della farmaceutica avanzata? Dove sono i fondi sovrani per prendere partecipazioni in aziende strategiche, come fanno Francia e Germania, per proteggerle da acquisizioni predatorie e indirizzarne la crescita? L’unica ricetta è il disimpegno, la riduzione della spesa, l’auspicare che il mercato privato colmi un vuoto che per sua natura non può colmare.
Il risultato di questo “trucco” è sotto gli occhi di tutti: la produttività italiana è ferma da vent’anni, le ore lavorate non decollano, e il tessuto industriale, seppur resiliente, si sta progressivamente smembrando in una miriade di micro-imprese che faticano a innovare e competere sui mercati globali e quando crescono, vengono acquisite da player internazionali che, spesso, le chiudono. Stiamo svendendo il nostro futuro potenziale di crescita per un punto percentuale in meno di deficit oggi.
Questa non è prudenza, è miopia finanziaria allo stato puro. Governare l’economia non significa solo tenere in ordine i conti, come un contabile scrupoloso; significa fare scelte audaci per espandere la base produttiva della nazione. Il Ministro, con la sua timidezza riformatrice, sta semplicemente amministrando un declino, illudendosi di poter vincere la corsa al passo del gambero perché, in questo momento, qualcuno sta arretrando leggermente più in fretta di noi. Ma in una corsa del genere, l’unico vero traguardo è il baratro. Tagliare gli investimenti produttivi per migliorare i parametri di bilancio non è una politica: è un suicidio economico a rate.
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