
Memoria e Futuro
Infelicità manifesta
A guardare le manifestazioni di lunedì mi è venuto da pensare a Raffaele Alberto Ventura (di cui tra l’altro è appena uscito l’ultimo imprescindibile volume La conquista dell’infelicità, che aggiorna la sua teoria della classe disagiata). Che c’entra, direte voi. C’entra, c’entra. Ma andiamo con ordine.
Se si volesse tracciare una linea che unisce i moti di protesta giovanile (e non solo) italiana, si potrebbero isolare tre epicentri sismici: il ’68, il ’77 e l’attuale era delle manifestazioni pro-Gaza (il 2001 fu un evento globale di fatto momentaneo e fu sedato come sappiamo). Tre terremoti sociali con caratteristiche telluriche ben distinte, ma accomunati dall’essere la risposta di una generazione alla crisi di un modello di società. È un’evoluzione che, vista attraverso il prisma di Ventura, assomiglia a una commedia in tre atti sulla progressiva perdita di illusioni.
Atto I: Il ’68 – “Love not War” e l’Assalto al Cielo Ottimista.
Qui siamo nel regno della fantasia costruttiva. La classe disagiata dell’epoca – figli di una borghesia in pieno boom – non mette in discussione il futuro, ma anzi, lo vuole tutto e subito. La loro è una protesta contro l’autoritarismo e l’ipocrisia, ma con un orizzonte traboccante di speranza. L’immaginazione al potere, l’amore invece della guerra. Era un movimento che, nella sua essenza, credeva ancora di poter riparare il mondo, di costruire un paradiso in terra fatto di autogestione e libertà sessuale. Il disagio era una forza propulsiva, un motore per un’utopia concreta. Erano disagiati, ma credevano nel lieto fine.
Atto II: Il ’77 – La Fantasia Distruttiva e il Grande Disincanto.
Dieci anni dopo, la musica cambia. L’ottimismo si è incrinato contro il muro della crisi economica e della repressione. La fantasia non vuole più “andare al potere”, ma distruggerlo. La classe disagiata del ’77 è già più consapevole della trappola: il sistema non si riforma, si sabotava. Non si costruiscono università alternative, si occupano e si trasformano in fortezze della controcultura. La violenza diventa linguaggio, il rifiuto è totale, il sorriso estatico diventa ghigno sarcastico, e il rifiuto è non solo politico ma anche estetico (punk, indiani metropolitani). È il passaggio dall’amore all’odio, dalla costruzione alla distruzione. Il disagio, qui, non cerca più un posto al sole, ma fa della propria marginalità un’identità eroica e tragica. È la ribellione di chi sa di non poter vincere, ma decide di lasciare il segno, almeno sui muri delle città.
Atto III: Oggi – La Ricerca dell’Infelicità e la Performance del Disagio.
Ed eccoci al presente. La nostra classe disagiata ha digerito il fallimento di entrambi i progetti precedenti, grazie ai racconti di nonni e zii. Costruire un mondo alternativo? Naif. Distruggere il sistema? Impraticabile, e soprattutto, faticoso. Ecco allora l’ultima, geniale evoluzione: la performance dell’infelicità. Il parallelo con le attuali manifestazioni pro-Gaza è calzante. Come per il ’77, c’è un elemento di disturbo e conflitto, ma con un obiettivo fondamentalmente diverso.
La protesta è una terapia. Il fine non è la vittoria sulla politica estera israeliana (obiettivo chiaramente irraggiungibile per un corteo), ma la gestione del proprio malessere interiore.
La causa globale (Gaza) funziona da scenario perfetto, molto più comodo e nobile del proprio precariato. Permette di trasformare l’ansia da futuro incerto in una rabbia moralmente legittima. Si ricerca l’infelicità – la posizione dello sconfitto, del perseguitato dalla polizia, del condannato dai media – perché è l’unica che sembra autentica in un mondo di felicità obbligatoria e fasulla. È un ’77 senza la speranza nichilista della rivoluzione che abbatte il sistema, un ’68 senza l’amore, ma con un eccellente branding emotivo da condividere sui social.
In sintesi, la parabola è questa: si è passati dal voler cambiare il mondo (‘68), al volerlo far saltare in aria (‘77), fino all’attuale desiderio di testimoniare, con stile, che il mondo fa schifo. È la protesta come esistenza: non si lotta per essere felici, si protesta per dare un senso alla propria infelicità. Un finale tutt’altro che brillante, se non proprio triste, per una commedia che dura ormai da più di cinquant’anni.
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