
Memoria e Futuro
La colpa e il calcolo
Mentre la Sumud Flottiglia si avvicina sempre di più al limite estremo del suo viaggio e i rappresentanti istituzionali del nostro paese limano le loro dichiarazioni per non rischiare figuracce in caso di derive ingovernabili della vicenda, resta la questione del riconoscimento del virtuale stato di Palestina a dominare lo scenario internazionale. E anche lì il nostro paese, a differenza dell’altra nazione europea che all’ONU ha rifiutato di accodarsi alla proposta Macron, c’è arrivato tra un distinguo, un balbettamento e un “parliamo d’altro”.
Quando si parla di riconoscimento della Palestina, la Germania e l’Italia sembrano muoversi a prima vista affiancati ma in realtà viaggiano (almeno finora) su due binari paralleli che non si incrociano mai, ciascuno con la propria motivazione ben salda, ma molto diversa. Da una parte troviamo la Germania, il cui no al riconoscimento è il risultato di un pesante bagaglio storico: il senso di colpa per l’Olocausto è diventato un obbligo politico, quasi un protocollo non scritto che vieta di mettere in discussione l’alleanza con Israele. In Germania, il ricordo della Shoah non è solo storia, è un’asset strategico della politica estera. Insomma, quello che per altri paesi è una posizione politica pragmatica, per Berlino è una specie di giuramento solenne.
Se qualcuno spera che la Germania si unisca al coro europeo che riconosce la Palestina come Stato, dovrà aspettare forse un altro paio di decenni, o qualche generazione che si liberi di questo interruttore morale. E non serve scandagliare con sarcasmo questa posizione: è comprensibile, dato il peso di quell’eredità storica, che sia un tema così delicato.
Poi c’è l’Italia, che invece di sensi di colpa se ne riconosce da sempre ben pochi. Qui il “no” al riconoscimento della Palestina, seppur meno netto rispetto a Berlino, prende strade molto diverse. È tutto figlio (potremmo dire tranquillamente oramai nipote) di una politica mediterranea vecchia scuola, quella di Andreotti e Moro, fatta di equilibri approssimativi, non tanto per convinzione ideologica, ma per prudenza e per non inimicarsi nessuno. Non è un segreto che la diplomazia italiana abbia sempre amato il gioco del doppio forno, tenendo un occhio su Israele e l’altro sul mondo arabo, senza far capire troppo a nessuno quale dei due fosse veramente il “forno principale”.
Ora, se osserviamo al replay lo spettacolo politico della scorsa settimana newyorkese del presidente del consiglio, ci ritroviamo a vedere l’Italia che, quando si tratta di riconoscere la Palestina, si mette a fare calcoli di precisione quasi maniacale: sì al riconoscimento, ma solo a queste due condizioni improbabili dettate dal governo Meloni. Prima: che Hamas liberi tutti gli ostaggi. Seconda: che Hamas sparisca magicamente dalla scena politica. Il tutto condito dal buttarla in caciara sulla vicenda Flottiglia disegnando improbabili complotti ad personam, tanto per distrarre il canaio giornalistico si un tema con cui riempire le pagine (inutilmente) per giorni.
Ma torniamo all’annuncio e alle condizioni. Già solo ad enunciarle (e ci vuole faccia) si capisce che si tratta di obiettivi irrealizzabili, buoni solo per dire “ah, non si può? Bè pazienza, allora non se ne fa nulla”. E chi li propone assume lo sguardo di quell’impiegata delle poste di un mirabile sketch dei soliti ignoti quando, prima di chiudere lo sportello, avvertiva il cliente dicendo “un attimo e sono subito da lei”.
Dunque, mentre molti paesi europei alzano il calice al riconoscimento con il sorriso sbrigativo di chi pensa di averla sfangata a trovarsi all’ultimo minuto dal lato giusto della storia, l’Italia sta ancora cercando di capire come fare a stabilire le “priorità giuste”. E nel frattempo, l’opposizione (anch’essa impegnata in sottigliezze da fare accapponare la pelle al dottor Azzecca-garbugli per non scontentare il Quirinale mentre non deve perdere la faccia con la piazza pro Flottiglia) non perde occasione per chiamare questa tattica “un gioco di prestigio”, sapendo benissimo che in questo caso deve ringraziare il cielo a trovarsi al posto della minoranza, altrimenti sarebbe stata impegnata lei in questa lunga sceneggiata per non sbilanciarsi troppo.
In sostanza, la Germania dice “No, per la storia”, con la gravitas di un film drammatico tedesco, mentre l’Italia risponde “No, ma forse sì, se succede… e se succede questo… e se non succede… beh, vedremo”, degno di un film di Totò. Nell’interesse della Nazione, naturalmente.
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