Memoria e Futuro

La creatività come tradizione

di Marco Di Salvo 19 Maggio 2025

Nella sua storia repubblica (e non solo), l’Italia ha mostrato una certa propensione per quella che potremmo definire “contabilità creativa” nei conti pubblici. E anche gli attuali tenutari del governo sembrano non sfuggire a questa metodologia, stabilendo per sempre che nel nostro paese “la creatività è tradizione”, come direbbero loro, appassionati di radici come topolini di campagna.

Due esempi significativi di questo fenomeno si possono trovare in periodi storici distanti, ma con dinamiche sorprendentemente simili, a discapito anche delle narrazioni correnti sulla rottura di paradigma tra prima e seconda Repubblica.

Durante gli anni ’80, sotto il governo di Bettino Craxi, l’Italia annunciò improvvisamente (e trionfalmente) di essere diventata la quinta economia mondiale per PIL. Questo traguardo, celebrato come il “sorpasso” dell’Italia sul Regno Unito (con grande spiegamento di trombettieri che su giornali e TV incensavano di allora governanti, gli stessi che incautiti oggi raccontano meraviglie di quel periodo), fu possibile grazie a una revisione metodologica dei conti nazionali che incluse nel calcolo del PIL attività precedentemente non contabilizzate: l’economia sommersa e illecita.

L’ISTAT nel 1987 decise infatti di adottare una nuova metodologia che incorporava stime del lavoro nero e di alcune attività del mercato nero, facendo aumentare di botto il PIL italiano di circa il 18%. Questa manovra contabile permise all’Italia di scalare temporaneamente le classifiche economiche mondiali, ma senza riflettere un reale miglioramento della competitività o della produttività del Paese.

Oggi, assistiamo a una dinamica simile con il governo Meloni che cerca di raggiungere l’obiettivo NATO del 2% del PIL in spese militari. Secondo recenti dichiarazioni, l’esecutivo starebbe considerando di includere nei calcoli voci di spesa precedentemente non considerate “militari”, come i costi della Guardia di Finanza e altre forze di sicurezza interna (come i Carabinieri) con i relativi costi anche per le pensioni degli ex appartenenti alle suddette forze, oltre a riclassificare determinate spese per la cybersicurezza e trasformare in spese strategiche quelle per alcune infrastrutture (come il mitico ponte di Messina).

In entrambi i casi qui brevemente raccontati, la strategia è chiara ed è sempre la stessa: modificare i parametri di calcolo anziché cambiare la sostanza. Nel caso del governo Craxi, l’inclusione dell’economia sommersa permise di gonfiare il PIL senza affrontare i problemi strutturali dell’economia italiana (è di scaricarne le conseguenze in termini di debito pubblico sulle generazioni successive). Oggi, l’ampliamento della definizione di “spesa militare” consentirebbe di avvicinarsi all’impegno NATO del 2% senza aumentare realmente gli stanziamenti per la difesa nella misura richiesta (anche qui eventualmente saranno i posteri a valutarne le conseguenze).

Questa contabilità creativa rivela una costante nella gestione dei conti pubblici italiani: la tendenza a privilegiare soluzioni formali piuttosto che sostanziali per rispettare parametri internazionali. Nel caso degli anni ’80, l’effetto fu quello di presentare un’immagine dell’economia italiana più florida di quanto non fosse realmente. Oggi, la riclassificazione delle spese permetterebbe di soddisfare formalmente gli impegni con la NATO senza aumentare significativamente il budget della difesa (e, se dovesse proprio andare proprio bene, anche creare un tesoretto da spendere in altro).

La storia sembra ripetersi, dimostrando come, a distanza di quasi quarant’anni, certe abitudini nella gestione della contabilità pubblica italiana persistano nonostante i cambiamenti di governo e di scenario internazionale. D’altronde da un paese che è solo in grado di fare l’ennesima serie TV su il Gattopardo (e spacciarla come straordinaria novità) che cosa vi potreste aspettare?

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