Memoria e Futuro

La Croce e la Bandiera

di Marco Di Salvo 27 Dicembre 2025

Il 25 dicembre 2025 il presidente Donald Trump ha ordinato attacchi aerei contro obiettivi dell’ISIS nel nordovest della Nigeria, specificatamente dichiarando che li aveva ritardati di un giorno per farli cadere a Natale come “regalo”. Le operazioni, condotte con droni MQ-9 Reaper e missili Tomahawk, hanno colpito due campi nella foresta di Bauni nello stato di Sokoto, al confine con il Niger. Trump ha giustificato l’azione sostenendo che i terroristi stavano compiendo un “genocidio” contro i cristiani nigeriani, promettendo ulteriori attacchi se le violenze fossero continuate.

Tuttavia, la narrativa presenta notevoli contraddizioni. I residenti di Jabo, villaggio dove sono caduti frammenti di missili, hanno affermato che la loro zona non ha mai subito attacchi dell’ISIS. Analisti locali sottolineano che lo stato di Sokoto, dove sono avvenuti i bombardamenti, ha una popolazione prevalentemente musulmana e pochi episodi di violenza contro cristiani.

La retorica del “genocidio cristiano” promossa dal senatore Ted Cruz e dalla destra evangelica americana ha influenzato pesantemente la decisione di Trump, nonostante le obiezioni di esperti africani che avvertono che l’instabilità nigeriana non può essere risolta con raid militari. Il tempismo teatrale dell’operazione – deliberatamente programmata per Natale – rivela come considerazioni politiche e religiose abbiano prevalso sull’analisi strategica di una situazione complessa che richiede soluzioni diplomatiche e regionali, non simbolismo militare.

D’altronde la relazione tra evangelicalismo americano e politica estera degli Stati Uniti rappresenta uno degli intrecci più complessi e controversi della storia contemporanea. Dal diciannovesimo secolo, quando i missionari protestanti si sparsero per il mondo acquisendo competenze linguistiche e conoscenze territoriali che poi influenzarono le decisioni governative, fino alle guerre del ventunesimo secolo, questa corrente religiosa ha esercitato un’influenza che va ben oltre i confini della fede personale.

L’ascesa politica degli evangelici negli Stati Uniti trova le sue radici negli anni Settanta, quando questo gruppo religioso iniziò a organizzarsi come forza politica coerente. Costituendo circa il 40% della popolazione americana secondo alcune stime, gli evangelici divennero un blocco elettorale che nessun presidente poteva ignorare. Da Jimmy Carter, primo presidente apertamente evangelico dell’era moderna, a Ronald Reagan, affascinato dall’escatologia evangelica, fino a George W. Bush, altro presidente dichiaratamente “born-again”, l’influenza di questa comunità religiosa sulle scelte di politica estera è cresciuta esponenzialmente.

Il caso più emblematico e tragico di questa interconnessione fu quello del Guatemala negli anni Ottanta. Dopo il devastante terremoto del 1976, missionari evangelici americani, principalmente pentecostali provenienti dalla California, giunsero nel paese centroamericano per diffondere il vangelo e ricostruire le case. Tra i loro convertiti figurava un generale di nome Efraín Ríos Montt, che nel 1982 prese il potere con un colpo di stato militare, diventando il primo presidente evangelico del Guatemala.

Ciò che seguì fu una delle pagine più oscure della storia latinoamericana. Durante i diciassette mesi al potere di Ríos Montt, circa 86.000 persone, principalmente Maya, furono uccise in quella che successivamente fu riconosciuta come un genocidio. La sua strategia controinsurrezionale, eufemisticamente chiamata “fagioli e fucili”, prevedeva di nutrire e armare i presunti simpatizzanti del regime, mentre le popolazioni indigene sospettate di appoggiare i guerriglieri venivano sistematicamente massacrate. I testimoni raccontano di famiglie intere bruciate vive, di bambine violentate prima di essere uccise, di bambini picchiati a morte.

Nonostante queste atrocità fossero note, influenti leader evangelici americani come Jerry Falwell e Pat Robertson mantennero stretti legami con Ríos Montt. Organizzazioni para-ecclesiali statunitensi sostennero attivamente il regime attraverso campagne di pubbliche relazioni, raccolta fondi e lobby al Congresso. La Guatemalan Task Force, creata da missionari americani, lavorò per convincere l’amministrazione Reagan a fornire aiuti militari al dittatore evangelico. Figure politiche come i senatori Roger Jepsen e Jack Kemp, insieme a rappresentanti di organizzazioni come Campus Crusade for Christ, esercitarono pressioni sul governo affinché sostenesse quello che consideravano un “fratello in Cristo”.

Il presidente Reagan visitò il Guatemala durante il genocidio e, nonostante le prove schiaccianti degli abusi, dichiarò che Ríos Montt stava “ricevendo un’ingiusta cattiva reputazione” e lo descrisse come “un uomo di grande integrità”. Per gli evangelici americani, il Guatemala rappresentava un’opportunità divina per espandere il protestantesimo in un paese cattolico e combattere il comunismo nell’emisfero occidentale. La missione evangelistica e gli obiettivi geopolitici della Guerra Fredda si fusero in una visione che giustificava persino le violazioni più gravi dei diritti umani.

Questo caso illumina un paradosso fondamentale nell’attivismo evangelico in politica estera. Da un lato, gli evangelici americani hanno effettivamente promosso cause umanitarie importanti: dalla fine della guerra civile in Sudan all’advocacy contro la tratta di esseri umani, dalla lotta contro l’HIV/AIDS alla promozione della libertà religiosa globale. La loro mobilitazione su questi temi ha dimostrato che il grassroots activism religioso può effettivamente influenzare le decisioni di Washington e portare a cambiamenti concreti.

Dall’altro lato, quando la libertà religiosa viene elevata a “diritto primario” al di sopra di tutti gli altri, come sostenuto dalla Commissione sui Diritti Inalienabili istituita dal Segretario di Stato Mike Pompeo nel 2019, le conseguenze possono essere distorsive. La priorità assoluta data alla libertà di evangelizzare ha talvolta portato a sostenere regimi oppressivi che permettevano il proselitismo, ignorando altre violazioni sistematiche dei diritti umani.

La globalizzazione dell’evangelicalismo ha reso la situazione ancora più complessa. Oggi il 70% degli evangelici vive fuori da Stati Uniti ed Europa, con una crescita esplosiva in Africa subsahariana e America Latina. Questa “nuova cristianità” del Sud globale ha trasformato l’attivismo evangelico americano da un movimento prevalentemente bianco e americanocentrico a una rete transnazionale. Tuttavia, i gruppi evangelici americani continuano a esercitare un’influenza sproporzionata, esportando le loro battaglie culturali e ideologiche in contesti dove possono avere conseguenze devastanti per le minoranze e i gruppi vulnerabili.

Questa storia ci insegna che quando il potere dello stato e lo zelo religioso si fondono, quando l’anticomunismo e l’evangelizzazione diventano indistinguibili, quando la fine giustifica qualsiasi mezzo, i risultati possono essere catastrofici. Gli evangelici americani hanno certamente contribuito a plasmare la politica estera degli Stati Uniti in modi significativi, alcuni positivi, altri profondamente problematici. Comprendere questa influenza non significa ridurre gli evangelici a un monolite ideologico, ma riconoscere il peso reale, spesso nefasto, che le convinzioni religiose hanno sulle decisioni che cambiano il mondo, nel bene e nel male.

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