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La maledizione dell’always on
A volte, durante il telegiornale della sera e il talk show che lo segue quasi inevitabilmente, schiaccio il tasto mute del telecomando. Non per insofferenza, ma per esperimento. Quello che dicono, più o meno, lo so già: le dichiarazioni sono prevedibili, i comunicati rodati, le frasi fatte intercambiabili. Ma quando il volume si azzera, emerge qualcos’altro: il paraverbale – il tono, il ritmo, l’intensità – e il non verbale: espressioni facciali, postura, gesti, sguardo. Sono questi elementi che, forse, raccontano la storia più inquietante della politica italiana contemporanea: i nostri politici sembrano sempre più ologrammi che hanno dimenticato di avere un corpo.
Ed è proprio nei talk show che il fenomeno diventa evidente. Sotto le luci dello studio, l’attesa del proprio turno di parola, lo sguardo che si sposta dal conduttore all’avversario politico, il sorriso di circostanza. E sempre quel click quando arriva il loro momento: il corpo che si raddrizza, il volto che si anima, la maschera che scatta in posizione.
Osservando i volti della classe dirigente attuale, emerge una frattura netta. Da una parte ci sono quelli dallo sguardo stanco: Antonio Tajani con quella faccia di chi ha visto troppi vertici europei e troppe mediazioni impossibili. Gli occhi appesantiti, le rughe dell’esaurimento, la mascella contratta sotto uno sguardo di studiata pacatezza. Volti che raccontano una militanza consumata, un’usura che nessun trucco televisivo riesce più a mascherare.
Dall’altra parte ci sono i volti dall’alta intensità costante: Elly Schlein, Giorgia Meloni e Matteo Renzi mostrano un’energia sempre accesa al massimo. Non è isterismo – termine inappropriato e sessista soprattutto quando applicato alle donne – ma una sovra-espressività continua che non conosce mezzi toni. Sorrisi ampi, decisi, quasi didascalici. Sguardi che puntano dritti in camera con intensità cinematografica. Renzi ha trasformato questa caratteristica in marchio di fabbrica: il gioco della battuta sempre pronta, la caccia al bon mot che spesso cade nel vuoto, lasciando quella sensazione sgradevole di chi ha visto lo sforzo dietro l’improvvisazione.
E poi c’è la categoria dei volti imbolsiti: a questi appartengono certamente Matteo Salvini e Carlo Calenda. Quella pesantezza dei lineamenti che deriva da stress, alimentazione, età che avanza male. Volti gonfi (nonostante temporanei dimagrimenti) non solo di chili ma di parole rimangiate e promesse infrante. Calenda sempre sul punto di esplodere per l’indignazione, occhi spalancati, vene del collo pulsanti, che prova a nascondere dietro una nonchalance che pare da calmanti per come suona finta.
La cosa più disturbante si coglie quando la telecamera indugia su di loro nel momento in cui credono di non essere osservati. Negli stacchi pubblicitari, nei secondi prima del loro turno: si spengono. Letteralmente. Il sorriso si cancella, lo sguardo diventa vitreo, i muscoli facciali si rilassano in un’espressione che non è riposo ma vuoto. E quando arriva il loro momento – lucetta rossa, nome pronunciato dal conduttore, cellulare che si orienta – click. Il volto si riattiva istantaneamente.
È come guardare un videogioco in modalità risparmio energetico. Quella schermata che compare quando lasci il controller: i personaggi in loop di animazioni minime, in attesa. I politici contemporanei funzionano così. Senza input – senza telecamera, pubblico, like potenziale – vanno in screensaver. Al primo stimolo, il personaggio si ricarica: sorriso numero tre, espressione di gravità numero sette, battuta già testata.
L’abitudine a essere sempre sotto l’occhio di telecamere ha trasformato la politica in un videogioco multiplayer sempre online. Non puoi uscire dalla partita. Puoi solo metterla in pausa. E anche quella è precaria.
Il paragone con la Prima Repubblica è inevitabile. Quelli di allora erano volti spesso brutti, quasi lombrosianamente brutti: Craxi con quella faccia larga da condottiero decaduto, Andreotti con lineamenti simil rettiliani, Forlani sempre sul punto di addormentarsi. Eppure c’era un’umanità residua oggi perduta. Quando Pertini sorrideva, sorrideva davvero: gli si illuminavano gli occhi in modo impossibile da fingere. Quando Berlinguer si commuoveva, la commozione era autentica. Quegli uomini erano brutti ma naturali. Le telecamere erano poche, limitate agli studi televisivi. Il resto del tempo potevano essere semplicemente se stessi.
Erano personaggi da romanzo ottocentesco: tridimensionali, contraddittori, capaci di sorprendere. I politici di oggi sono sprite di videogioco: immagini bidimensionali con repertorio limitato di espressioni, sempre uguali perché programmati per esserlo. Non evolvono, si aggiornano. Non invecchiano, si pixellano.
Proprio per questo a volte mi chiedo come facciano a immaginare un futuro fatto ancora di questa routine. Come si svegliano sapendo che dovranno caricare il personaggio per sedici, diciotto ore consecutive? Penso a Giorgia Meloni, che già si prepara per un secondo mandato. E mi viene da fare – al di là di ogni giudizio politico – un esercizio di empatia doloroso. Se fossi al suo posto, farei un esame di coscienza. Non sulla qualità del mio operato, ma della mia vita. Voglio davvero altri cinque anni così? Passare la prima metà dei miei cinquant’anni sempre in modalità multiplayer, sempre connessa, sempre disponibile per la prossima quest, il prossimo talk show?
Non sembra nemmeno che lo voglia davvero, a guardala in quei momenti in cui sa (o immagina) di essere fuori dal centro della telecamera. Sembra costretta dal fatto di essere già lì. Come se la carica portasse un’inerzia irresistibile: sei premier, quindi è quasi obbligatorio ricandidarti. Fermarsi, dire “basta”, ammettere la fatica sembra impossibile. Il meccanismo non prevede questa opzione. O vai avanti o sparisci.
Lo ammetto, mi manca l’immaginazione per capire come facciano. Come fanno a progettare un futuro identico al presente: stesso stress, stesso click che si accende e spegne, giorno dopo giorno. È masochismo? Dipendenza? O semplicemente non riescono più a immaginarsi fuori da quel ruolo, come se spegnere il personaggio significasse scoprire che il giocatore dietro il controller si è addormentato da tempo?
Probabilmente la differenza col passato sta nella permanenza dell’osservazione. I politici sanno che ogni momento può diventare pubblico: smartphone, diretta Facebook, telecamera di sorveglianza, quella del talk show che continua a inquadrarli anche quando non parlano. Non esiste più il “fuori scena”. L’umanità è stata sacrificata sull’altare della connessione continua.
Il paradosso è che questa gestione ipercontrollata produce l’effetto opposto: rende i politici meno credibili. Quando vediamo quel click, quel passaggio da screensaver a gameplay, percepiamo l’artificio. E l’artificio è veleno.
Quando spengo l’audio e li osservo in silenzio, non vedo persone che governano un paese, ma personaggi in attesa che qualcuno riprenda il controller, sprite abbandonati in un gioco che nessuno ha più voglia di giocare. I mostri della Prima Repubblica erano mostruosi sempre, coerentemente. I politici di oggi sono avatar intermittenti, personaggi che esistono solo quando qualcuno li sta guardando.
E forse è proprio questa consapevolezza che rende tutto più triste: sanno di essere prigionieri del server, ma continuano a riloggarsi ogni giorno. Perché disconnettersi – davvero disconnettersi, cancellare l’account una volta per tutte – significherebbe affrontare una domanda troppo spaventosa: chi sono, quando nessuno sta giocando con me?
 
             
             
             
            
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