Memoria e Futuro
La politica delle cover band
C’è un’amara poesia nel vedere centinaia di militanti e volontari, di quelli che un tempo organizzavano le Feste di partito delle sezioni dei paesi piccoli e grandi del centro e nord Italia (celebrate con ironia da questa vecchia canzone di Edoardo Bennato), servire oggi crescentine alle sagra dedicate ai prodotti tipici (Doc e Dop) delle loro zone. Le stesse mani che distribuivano d’inverno quotidiani e tessere, e d’estate celebravano con gioia la loro appartenenza ad un’organizzazione partitica col cedere le ferie lavorative per cucinare negli stand ora impacchettano panini al tartufo con lo sguardo pieno di malinconia. Non è solo un cambio di menu: è la parabola di un Paese che ha sostituito le passioni politiche con quelle alimentari.
Altro elemento costante di questi eventi sono le cover band che rimbombano nei piazzali e che mi suonano dentro come metafore perfette. Quelle note replicate con precisione chirurgica – i Nomadi, i Queen, Dalla – sono la colonna sonora della nostra resa. Ricordo ancora le tournée degli anni ’80, quando i partiti portavano grandi nomi della musica italiana e straniera anche nei borghi sperduti, segno della pervasività territoriale e della loro forza organizzativa. Oggi i sosia musicali riproducono i gesti ma non la carne. Ascoltando quel cantante che forza la voce per sembrare Battisti, mi chiedo quando abbiamo smesso di pretendere autenticità da sé stesso.
Questa malattia del doppio ha infettato la politica. Berlinguer ridotto a santino sulla tessera PD è di fatto una reliquia di un culto senza fedeli, professato da un clero senza personalità. Meloni che gioca a rifare Almirante (negli sguardi sui manifesti) e prova a riscriverne la memoria trasforma la storia in un set cinematografico. Ma è Tajani il personaggio più tragicamente immerso nella contraddizione del suo ruolo: lo vedo citare Berlusconi in ogni discorso come un ventriloquo che muove le labbra al morto. “Silvio diceva…”, “Silvio pensava…” – un ritornello da karaoke ideologico, mentre deve resistere alle pressioni degli eredi genetici del Cavaliere. Sono tutti lì, dietro i banconi della memoria, a riscaldare avanzi di pensiero.
La verità è che siamo circondati dalle copie. E in alcuni casi addirittura preferiamo il calco rassicurante all’originale scomodo. Come quei musicisti che hanno messo da parte le loro velleità personali per diventare suonatori di brani altrui. È la nostra stessa paura: creare richiede il coraggio di fallire, imitare garantisce applausi prevedibili. Così Tajani recita la parte del berlusconiano senza Berlusconi, il PD celebra (di fatto) i funerali della sinistra col volto di Berlinguer, FdI inscena un conservatorismo che, come le figure ad ologramma del passato che spostandole davano una seconda immagine, sottotraccia sa ancora tanto di neofascismo, in pensieri, opere e, soprattutto, omissioni (come ogni anno sul 2 agosto, ad esempio).
Oramai la sagra è l’unica forma di comunità che ci resta. Un rito collettivo dove tutto – dal cibo alla musica alla politica – è già previsto, preconfezionato, sicuro. Non a caso gli stessi volti invecchiati popolano i banchetti: sono i sacerdoti di questa religione del déjà-vu. Quando mi capita di camminare tra i tavoli osservando la gente masticare al ritmo di canzoni altrui penso che ogni boccone, ogni nota, è un atto di nostalgia tossica. Ci siamo rinchiusi in un museo vivente dove i politici sono guardiani impolverati di un museo senza turisti, i musicisti imbianchini di ricordi. Ma nessun tributo potrà restituirci il brivido dell’autentico. Siamo condannati a un eterno bis, con il pubblico che diminuisce e gli imitatori che invecchiano sul palco. L’Italia del Doc e del Dop è diventata in realtà una cover band di se stessa – dove la sofisticazione la fa da padrona, forse perfetta nella forma, ma certamente vuota nell’anima.
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