Memoria e Futuro
La politica dello zero virgola
All’ennesimo dato trimestrale di sostanziale stasi del dato del Prodotto Interno Lordo (è dai tempi del post COVID che si galleggia attorno allo zero) si prova un certo imbarazzo nell’osservare il balletto delle dichiarazioni dei politici di fronte ai numeri dell’economia. È come assistere a un teatro del nulla dove l’unica regola è invertire la realtà a comando.
Quando il PIL cresce dello 0,1%, i governanti si ergono a strateghi geniali: “Siamo fortissimi, la ripresa è qui!” gridano, trasformando un sospiro statistico in un trionfo epocale. Pochi mesi dopo, se quel decimale oscilla in negativo, gli stessi dati diventano per l’opposizione la prova apocalittica del fallimento: “Tragedia! Il paese affonda!”. Nessuno spiega cosa significhi realmente quel decimale, quali settori trainino o affondino, quali politiche potrebbero cambiare la traiettoria.
Lo stesso meccanismo si innesca con i dazi, le crisi internazionali, le emergenze sociali. Politici schierati come tifosi allo stadio: non analizzano cause o conseguenze, non propongono aggiustamenti. Commentano come se la realtà fosse un film da recensire su Twitter. Un ministro attacca i dazi europei definendoli “un suicidio economico”, mentre il suo avversario li esalta come “rivincita storica” – senza mai tradurre le parole in un piano concreto per le imprese colpite. La sostanza evapora, resta solo la coreografia della polemica. Parole lanciate da un auto in corsa nella speranza che il rumore del motore ne favorisca l’incomprensibilità.
Ciò che umilia chi sta a guardare questo triste spettacolo è la prevedibilità di questo copione. Come un orologio rotto che segna solo due ore: trionfo o catastrofe. I problemi complessi – disoccupazione giovanile, transizione ecologica, debito pubblico – vengono schiacciati in slogan da comizio o battute da social. La domanda “cosa faremo domani?” scompare. Siamo tutti dentro Groundhog Day (da noi conosciuto come Ricomincio da capo), sottoposti alla ripetizione quotidiana dell’autocompiacimento o della condanna senza appello. Un rito di cui sono partecipi tutti i protagonisti dello scenario pubblico.
Prendiamo per esempio l’ultima “emergenza”. L’incertezza sui dettagli dell’accordo commerciale tra Ue e Stati Uniti, a soli quattro giorni dalla stretta di mano al Turnberry Resort, ha scatenato una corsa preventiva ai contributi pubblici da parte delle aziende europee. Soprattutto in Italia, le imprese temono di essere travolte da dazi del 15% senza sapere ancora se, come e quando verranno applicati. Mentre Bruxelles e Washington forniscono versioni contrastanti sull’inclusione di settori chiave come farmaci e acciaio, le aziende reagiscono come se la crisi fosse già esplosa, chiedendo ristori sulla base di scenari ipotetici.
Nessuno che proponga strumenti per una ripartenza dei mercati nazionali, nessuno che esca dal recinto delle proposte di aiuto alle aziende, misure che non affrontano il cuore del problema: la dipendenza da un mercato Usa sempre più volatile. In questo clima, gli stessi aiuti diventano un boomerang macroeconomico. È il paradosso finale: la paura del dazio “a parole” sta costando all’Europa più del dazio stesso. Inevitabile, in un contesto politico ed economico-finanziario che gira quasi esclusivamente sulle parole.
È anche così che il dibattito pubblico si trasforma in un eco di frasi vuote e di soluzioni inefficaci. I cittadini ascoltano questi mantra ripetuti e sentono un gelo allo stomaco: non per paura delle crisi reali, ma per l’atrofia del pensiero politico. Perché quando un leader chiama “miracolo” lo zero virgola e “disastro” lo zero virgola meno, quando ripete a pappagallo soluzioni già dimostrate fallimentari dall’esperienza tradisce una verità amara: non sta guidando la nazione. Sta recitando una parte. E il palcoscenico è sempre più vuoto.
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