Memoria e Futuro
La repressione è una droga
Mi rendo conto che si tratta di spigolature, mentre tutti sono impegnati a manifestare per la pace o a festeggiare le grandi (e impreviste!) vittorie elettorali. Ma c’è una notiziola della settimana scorsa che forse è sfuggita ai più e che, in altri tempi, avrebbe fatto titoli ed editoriali.
È vero, la politica europea ci ha abituati a tutto, ma vedere Giorgia Meloni ed Emmanuel Macron fianco a fianco per lanciare un’iniziativa comune fa comunque un certo effetto. È successo a Copenaghen, mercoledì scorso, a margine del Vertice della Comunità Politica Europea. Roma e Parigi hanno annunciato la nascita della “Coalizione Europea contro le Droghe“, un’alleanza che suona quasi surreale se si pensa ai rapporti glaciali tra i due leader negli ultimi anni.
Ricordate le tensioni sui migranti? Le frecciatine reciproche sui social? Il caso della nave Ocean Viking? Gli sguardi freddi agli incontri internazionali? Tutto sembra dimenticato, almeno per il momento, davanti a un nemico comune che attraversa le frontiere meglio di qualsiasi accordo di Schengen: il narcotraffico.
L’iniziativa punta a coordinare gli sforzi contro il traffico di stupefacenti, con particolare attenzione alle nuove rotte che attraversano il Mediterraneo e l’Europa orientale. Ma dietro l’annuncio ufficiale si nasconde una partita a scacchi ben più complessa. Per Macron, questa alleanza arriva in un momento disperato. La Francia è nel caos politico più totale: dopo la caduta del governo Barnier a dicembre, sfiduciato con 331 voti, anche François Bayrou è durato appena nove mesi prima di essere sfiduciato a settembre. E ora, neanche il tempo di tirare il fiato, che il governo Lecornu si è dimesso dopo appena 27 giorni, record di brevità nella Quinta Repubblica. Un parlamento paralizzato, un debito pubblico al 114% del PIL, proteste sociali che non si placano mai. Cosa fa un presidente assediato a casa propria? Semplice: si rifugia nella politica estera, dove può ancora vestire i panni dello statista europeo. Vi ricorda qualcosa?
Anche Meloni, però, non naviga in acque tranquille. La crescita italiana del 2024 si è fermata a un misero 0,5%, metà di quanto previsto dal governo (e le previsioni sono altrettanto grame). La sanità pubblica arranca con finanziamenti insufficienti, il PNRR procede a singhiozzo, e i sondaggi recenti mostrano un calo di consensi dell’esecutivo dal 39% al 36% (niente di preoccupante, per ora, vista anche la consistenza dell’opposizione, ma non si sa mai).
Niente di drammatico come la paralisi francese, certo, ma abbastanza per capire che anche Palazzo Chigi ha bisogno di vittorie da vendere agli elettori. E quale migliore vetrina della scena internazionale? Presentarsi come capofila di un’iniziativa europea su sicurezza e legalità significa per entrambi costruire quella narrazione di leadership forte che tanto serve quando i numeri economici parlano un’altra lingua. È la vecchia strategia del “rally ‘round the flag”: quando va male in casa, si punta sui successi esteri.
Eppure, se la storia ci insegna qualcosa, è che le “guerre alla droga” hanno prodotto più danni che soluzioni. La madre di tutte le battaglie venne dichiarata nel 1971 da Richard Nixon, che definì l’abuso di droghe “il nemico pubblico numero uno”. Seguirono anni di repressione massiccia sotto Ronald Reagan, con la creazione di sentenze minime obbligatorie e un’escalation di incarcerazioni che ha trasformato gli Stati Uniti nel paese con la più alta popolazione carceraria al mondo. Il risultato? Dopo oltre cinquant’anni e trilioni di dollari spesi, il consumo di droghe non è diminuito, mentre le carceri sono esplose e intere comunità, specialmente afroamericane, sono state devastate da una legislazione discriminatoria. La guerra alla droga americana è diventata il paradigma di come non affrontare il problema.
Se guardiamo ad esempi più recenti e brutali, le Filippine di Rodrigo Duterte offrono un monito agghiacciante. La sua campagna lanciata nel 2016 ha prodotto oltre 12.000 morti, con esecuzioni extragiudiziali che hanno valso all’ex presidente un mandato di arresto della Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità. Il traffico di droga nelle Filippine? Continua indisturbato, mentre le famiglie delle vittime cercano ancora giustizia.
Eppure i politici continuano a cavalcare questo tema. Perché? Semplice: secondo loro, funziona. Almeno nel breve termine. Promettere tolleranza zero contro spacciatori e narcotrafficanti offre un messaggio immediato, comprensibile, rassicurante. Non richiede analisi complesse, non implica sfumature scomode. È politica pop: facile da comunicare, difficile da contestare senza apparire complici del crimine. Perfetta per chi ha bisogno di distrarre l’opinione pubblica da governi che cadono e da economie che non decollano.
Eppure i politici continuano a cavalcare questo tema. Perché? Semplice: nella loro mente funziona. Almeno nel breve termine. Promettere tolleranza zero contro spacciatori e narcotrafficanti offre un messaggio immediato, comprensibile, rassicurante. Non richiede analisi complesse, non implica sfumature scomode. È politica pop: facile da comunicare, difficile da contestare senza apparire complici del crimine. Perfetta per chi ha bisogno di distrarre l’opinione pubblica da governi che cadono e da economie che non decollano.
A questo punto viene da chiedersi: siamo davanti a una scelta politica consapevole o a un riflesso condizionato? La criminalizzazione delle droghe è diventata un vero e proprio tic ideologico, qualcosa che i politici tirano fuori dal cassetto con la stessa automaticità con cui un medico di altri tempi prescriveva salassi per qualsiasi malattia. Non importa che i dati dicano il contrario, non importa che esistano modelli alternativi più efficaci: quando c’è bisogno di consenso rapido, il copione è sempre lo stesso. Tolleranza zero, guerra ai trafficanti, stretta sui confini. È il comfort food della politica: rassicurante, familiare, assolutamente inefficace. Ma provate a proporre un approccio diverso, basato su evidenze scientifiche e salute pubblica, e vi ritroverete accusati di essere fiancheggiatori dei narcos. La droga è l’unico tema dove cinquant’anni di fallimenti non bastano a cambiare ricetta, perché ammettere l’errore costerebbe troppo in termini di capitale politico. E così si continua a reiterare lo stesso schema, sperando che questa volta, magari, funzioni davvero. Spoiler: non funzionerà.
Il problema è che la realtà è testarda. Le politiche proibizioniste hanno dimostrato ovunque di alimentare il mercato nero, aumentare la violenza, criminalizzare i consumatori senza scalfire i grandi cartelli. Paesi che hanno scelto approcci diversi, dalla decriminalizzazione portoghese alle politiche di riduzione del danno svizzere, hanno ottenuto risultati migliori sia in termini di salute pubblica che di sicurezza. Ma parlare di questi modelli richiede coraggio politico, e il coraggio politico scarseggia quando il tuo governo rischia di cadere ogni tre mesi o quando devi spiegare perché la crescita economica è la metà di quella promessa. È più facile fare la foto di gruppo a Copenaghen e promettere una nuova coalizione che ammettere che cinquant’anni di “guerre” non hanno funzionato.
La vera domanda, alla fine, non è se questa coalizione funzionerà contro il narcotraffico. La vera domanda è: quanto durerà questa luna di miele tra due leader che hanno scoperto improvvisamente di avere più in comune di quanto pensassero? Non tanto l’amore per politiche concrete, ma il bisogno disperato di una vittoria da mostrare in patria, che non sono certo le vittoriucole alle regionali. Anche per non imitare il neo alleato francese e mettersi a passeggiare da sola sulle sponde del Tevere tra qualche mese, quando non si saprà che pesci prendere.
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