Memoria e Futuro

La sindrome del già detto (e del non detto)

di Marco Di Salvo 5 Novembre 2025

C’è un momento particolare nella vita di chi commenta la politica in Italia in cui ti svegli la mattina, apri i giornali e ti ritrovi in una situazione paradossale: la notizia che tutti strombazzano come la rivelazione del giorno tu l’hai già masticata, digerita e sputata una settimana fa. E allora che fai? Ritorni sul tema con l’entusiasmo di chi deve rivedere un film già visto di cui conosce pure il finale?

Parliamoci chiaro: la lezione di Zohran Mamdani e le conseguenze per la sinistra italiana sono roba che ho già analizzato quando era ancora fresca. E ripetermi ora sarebbe come servire un piatto riscaldato al microonde e spacciarlo per cucina gourmet. Il problema è che l’agenda mediatica italiana funziona così: una notizia viene ignorata finché non diventa comoda, poi improvvisamente tutti la scoprono e pretendono di essere i primi ad averne parlato.

E poi c’è l’altra faccia della medaglia quotidiana da qualche giorno a questa parte: il referendum sulla giustizia. Tutti ne parlano, tutti hanno un’opinione, tutti fanno già il conto dei quesiti e delle possibili conseguenze. Peccato che si voti tra sei mesi. Sei mesi! Nel frattempo potrebbero succedere tre crisi di governo, una pandemia e l’invasione degli alieni, ma noi stiamo già qui a discutere di schede elettorali come se fossimo alla vigilia del voto.

Questa sovraesposizione anticipata non è casuale. È una strategia precisa per coprire il vero elefante nella stanza: tra poche settimane, precisamente il 23 e 24 novembre, ci sono le elezioni regionali in Puglia, Veneto e Campania. Quelle elezioni di cui a nessuno frega un accidente perché i risultati sono talmente scontati che potrebbero stamparli già adesso. Meglio parlare di referendum futuri che di voti imminenti che non cambieranno nulla.

Ma se guardiamo bene, c’è un aspetto di queste regionali che merita attenzione: il rapporto tra centro e periferia, tra leader nazionali e candidati territoriali. È un termometro spietato dello stato della politica italiana.

Prendiamo la Puglia. Antonio Decaro, ex sindaco di Bari ed europarlamentare da record di preferenze, parte nettamente favorito per il centrosinistra. Ha costruito la sua campagna con una certa autonomia, senza bisogno di affidarsi eccessivamente alla presenza costante di Elly Schlein. Quando vinci, o pensi di vincere, sei orfano volontario. I leader nazionali? Meglio tenerli a giusta distanza. Non sia mai che qualche loro gaffe, qualche loro scivolone nazionale contamini la campagna elettorale locale.

La stessa dinamica, speculare, si vede in Veneto. Alberto Stefani, il candidato leghista sostenuto dall’intera coalizione di centrodestra, deve raccogliere l’eredità pesantissima di Luca Zaia, il governatore più popolare d’Italia che non può ricandidarsi. Stefani parte da favorito, ma deve vedersela con una situazione delicata: Zaia stesso ha annunciato che si candiderà come capolista della Lega in tutte le circoscrizioni, un modo elegante per dire “io ci sono ancora, anche se non posso fare il presidente”. È in parte la stessa scomoda posizione di De Caro che, dopo i tira e molla in estate, una volta candidatosi presidente si è dovuto “ciucciare” Vendola capolista di AVS e il suo predecessore più prossimo futuro assessore della sua giunta. Il lusso (e la maledizione) di chi parte davanti: scegliere la propria solitudine, o almeno gestire con cura le presenze ingombranti.

E poi ci sono gli altri. I candidati che già sanno come andrà a finire. Quelli destinati a perdere. Figli di nessuno, esattamente come Curtis Sliwa alle elezioni di New York: il repubblicano che ha sfidato Mamdani sapendo di non avere speranze in una città dove i democratici superano i repubblicani sei a uno. Sconfitto, dimenticato, abbandonato dal suo stesso partito che non si è nemmeno compattato fino in fondo attorno alla sua candidatura e che ha subito pure l’onta dell’appello al non voto per lui da parte del Presidente degli Stati Uniti. Per candidati così i leader nazionali non vengono proprio, se non in qualche comizio simbolico per salvare le apparenze. Nessuno vuole essere fotografato con un perdente annunciato. È la politica, bellezza: spietata e prevedibile.

Il risultato è un balletto grottesco in cui tutti sanno già come andrà a finire, ma devono far finta di giocare la partita. I candidati vincenti gestiscono con cautela il rapporto con i loro partiti nazionali, quelli perdenti vengono abbandonati, e nel frattempo ci distraiamo parlando di referendum che si terranno quando probabilmente avremo già cambiato tre volte argomento.

Ecco perché stamattina non avevo voglia di scrivere. Perché a volte fare il commentatore politico in Italia significa doversi arrampicare sugli specchi per trovare qualcosa di nuovo da dire su una realtà che si ripete identica, prevedibile, stancamente ciclica. Una realtà in cui le elezioni vengono nascoste sotto il tappeto quando i risultati sono scontati, e i referendum futuri vengono gonfiati per riempire il vuoto di una narrazione politica sempre più stanca.

Ma poi ti dici: se non lo racconto io a modo mio, chi lo farà?

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