Memoria e Futuro
Lascia stare i santi
Controlliamo il calendario: siamo davvero nel 2025? Perché a giudicare dagli ultimi giorni, si direbbe di no. Sembra piuttosto di essere precipitati in un wormhole temporale che ci ha risputati dritti negli anni Sessanta: un Presidente della Repubblica che si erge a paladino di una santa e della sua dignità nell’avere intestata una festa nazionale e un governo con la sua maggioranza impegnati a rispolverare festività religiose per trasformarle in ricorrenze civili. Assistiamo a uno spettacolo surreale che lascia basiti chiunque nutrisse l’ingenua convinzione che l’Italia avesse finalmente voltato pagina sui rapporti tra Stato e Chiesa.
Il ritorno del 4 ottobre come festa nazionale in onore di San Francesco d’Assisi rappresenta l’ennesima prova di quanto sia difficile, per questo paese, accettare fino in fondo la propria natura laica. Ma attenzione: non si tratta di rispetto delle religioni in generale. Si tratta di genuflettersi esclusivamente davanti alla religione cattolica. La stessa maggioranza che reintroduce San Francesco come festività nazionale è quella che presenta proposte di legge per vietare burqa e niqab nei luoghi pubblici, nelle scuole, negli uffici. La stessa che vuole impedire a una minoranza islamica di esprimere la propria fede attraverso il velo integrale, scelta criticabile quanto si vuole ma pur sempre espressione di libertà religiosa, mentre celebra con feste nazionali i santi della tradizione cattolica. Due pesi, due misure: San Francesco sì, il burqa no. La croce nei luoghi pubblici è identità, il velo islamico è minaccia. Io, personalmente, la penso come Cavanna che scrisse questo memorabile appello sulle religioni, che campeggia nel mio bagno personale e che rileggo ogni mattina lavandomi il viso:
“Voi, i cristiani, gli ebrei, i musulmani, i buddisti, gli scintoisti, gli avventisti, i panteisti, i testimoni di questo e di quello, i satanisti, i guru, i maghi, le streghe, i santoni, quelli che tagliano la pelle del pistolino ai bambini, quelli che cuciono la… Tutti voi, che vi siete fabbricati un dio ‘perfetto’ e ‘buono’ tanto stupido, tanto meschino, tanto sanguinario, tanto geloso, tanto avido di lodi quanto il più stupido, il più meschino, il più sanguinario, il più geloso, il più avido di lodi tra voi. Voi, oh, tutti voi NON ROMPETECI I C@&/|@NI!!!”
Ma torniamo alla surreale polemica odierna. La legge, promulgata dal Presidente Mattarella con evidenti riserve, presenta una contraddizione grottesca: la stessa data risulta ora qualificata contemporaneamente come festività nazionale per San Francesco e solennità civile per Santa Caterina da Siena. Un pasticcio legislativo che non è solo tecnico, ma simbolico di un’ipoteca religiosa che permea ogni aspetto della vita pubblica italiana. Un’ipoteca che, paradossalmente, negli ultimi anni sembra essersi rafforzata proprio mentre i fedeli diminuiscono e le chiese si svuotano.
Per rifare un po’ di storia, la Costituzione italiana, all’articolo 7, riconosce la “sovranità” della Chiesa cattolica nel proprio ordine, ma sancisce anche l’indipendenza reciproca tra Stato e Chiesa. Eppure questa laicità costituzionale sembra sempre messa sotto tutela, come se lo Stato si sentisse ancora in debito, ancora obbligato a dimostrare deferenza verso l’istituzione ecclesiastica. È una laicità timida, incerta, che procede a singhiozzo: un passo avanti nelle leggi, due indietro nella pratica. E questo accade in un’epoca in cui la pratica religiosa è ai minimi storici, eppure il potere simbolico della Chiesa sembra intoccabile.
Questo atteggiamento ambivalente ha radici storiche profonde. Con il Concordato di Craxi del 1984 venne formalmente abolito il principio della religione cattolica come religione di Stato, sancito nei Patti Lateranensi del 1929. Il protocollo addizionale dichiarava espressamente “non più in vigore” quel principio. Era la promessa di un’Italia finalmente laica, adulta, capace di distinguere tra identità culturale e confessionalismo statale. Quarant’anni dopo, quella promessa sembra tradita ogni volta che il dibattito pubblico si riaccende su festività religiose, simboli nelle scuole, finanziamenti, privilegi fiscali. Tradita in un paese dove le chiese sono vuote ma l’invocazione del sacro nella sfera pubblica è onnipresente.
Anche sul fronte penale la strada verso la laicità è stata tortuosa e incompiuta. Un esempio su tutti. Nel 2006 venne abolita la punibilità del vilipendio alla religione, eliminando reati che tutelavano il sentimento religioso come bene giuridico. Fu un passo importante verso la libertà di espressione. Eppure quella riforma, che avrebbe dovuto segnare una svolta definitiva, sembra oggi un ricordo lontano. Chi bestemmia pubblicamente contro la Divinità rischia ancora una sanzione amministrativa pecuniaria che va da 51 a 309 euro, secondo l’articolo 724 del Codice Penale. Una norma depenalizzata negli anni Novanta ma mai cancellata, come un fantasma che continua a infestare l’ordinamento in un paese che si dice secolarizzato.
Ma è nel calcio che l’assurdità raggiunge il culmine. Nel 2019, dopo decenni di riforme che avevano progressivamente rimosso la tutela penale del sentimento religioso, un’associazione privatistica come la FIGC ha deciso di dedicare tempo ed energie a stabilire punizioni specifiche per chi bestemmia. L’articolo 37 del Codice di giustizia sportiva punisce con una giornata di squalifica calciatori e allenatori colpevoli di bestemmia durante la gara. Qualche tempo fa l’allenatore Sottil fu multato di 1.250 euro per dodici bestemmie. Pensateci: mentre lo Stato depenalizzava, un ente privato reintroduceva la sanzione. Sui campi da gioco la tutela del sentimento religioso è più severa che nella vita quotidiana. Un’organizzazione sportiva, nel 2019, si è presa la briga di codificare la punibilità della bestemmia con una precisione che lo Stato aveva abbandonato. È il segno di un’ipoteca culturale religiosa così pervasiva da coinvolgere persino ambiti che con la fede non dovrebbero avere nulla a che fare.
Forse non è un caso. Quando un paese perde prospettive per il futuro, quando le speranze si affievoliscono e l’orizzonte si restringe, aggrapparsi alla religione e all’idea dell’esistenza di divinità diventa un modo come un altro per passare il tempo, per trovare un senso o almeno un conforto. E così, mentre i dati sulla pratica religiosa crollano, la presa simbolica del sacro sulla vita pubblica sembra paradossalmente crescere. Non è fede autentica, spesso, ma nostalgia mascherata da tradizione, paura del futuro travestita da rispetto del passato. Le chiese si svuotano ma le processioni vengono riproposte, i giovani non credono più ma le festività religiose si moltiplicano, nessuno va più a messa ma guai a toccare i simboli.
L’Italia del 2025 continua così a “baloccarsi” con questioni che molti paesi europei hanno risolto decenni fa. Si istituiscono festività per santi creando sovrapposizioni legislative assurde, si mantengono sanzioni per offese alla Divinità, associazioni private codificano punizioni per bestemmie mentre lo Stato finge di essere laico. Il risultato è un sistema dove la secolarizzazione avanza sulla carta e nella società ma regredisce nella sostanza normativa, dove si proclama da cittadini l’indipendenza ma ci si comporta da istituzioni come sotto tutela ecclesiastica. Un paese incapace di scegliere definitivamente tra modernità e tradizione, che si aggrappa al sacro non per fede ma per mancanza di alternative, per paura del vuoto, per assenza di prospettive. E in questo vuoto, l’ipoteca religiosa cresce, si rafforza, permea tutto, anche i campi di calcio.
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