Memoria e Futuro

L’assalto senza diligenza

di Marco Di Salvo 24 Ottobre 2025

Spesso la dannata schiera di cui faccio parte, quella dei giornalisti, si trova a usare una serie di formule ripetitive e stantie. Una di queste, negli anni passati e in questo periodo dell’anno, era quella dell'”assalto alla diligenza”. Cosa voleva dire? In sostanza che al momento della presentazione della legge di bilancio cominciavano a sfogarsi gli appetiti dei partiti e dei singoli parlamentari per far sì che una parte di quel bilancio finisse al loro elettorato, che fosse quello territoriale o quello di categoria. Da qualche anno a questa parte, questo non succede più.

Ogni fine anno si ripeteva lo stesso copione: migliaia di emendamenti parlamentari, ognuno volto a strappare un finanziamento per questa o quella categoria, da detassazioni sulle ostriche a contributi per produttori di pappa reale. Un rituale spesso indecoroso ma almeno trasparente nella sua confusione: tutti sapevano che si stava contrattando, tutti vedevano cosa veniva inserito nella manovra.

E mica c’era tutta questa urgenza di chiudere il bilancio entro il 31 dicembre. Dal 1948 al 1968 l’esercizio provvisorio è stato la regola, non l’eccezione: per vent’anni consecutivi l’Italia non riuscì mai ad approvare il bilancio in tempo. Solo nel 1969 il Governo Rumor riuscì per primo a far approvare il bilancio entro la scadenza naturale, impresa ripetuta dai governi Moro nel 1976 e Andreotti nel 1977. L’ultimo ricorso all’esercizio provvisorio risale al 1988, con il governo Goria che lo utilizzò per un trimestre. In totale, dalla nascita della Repubblica fino al 1988, questo strumento straordinario è stato utilizzato ben 33 volte.

Secondo alcuni osservatori, l’esercizio provvisorio aveva persino elementi virtuosi: visto che nel passaggio tra governo e parlamento le spese previste nella manovra si allargavano quasi inevitabilmente, autorizzare per i primi mesi dell’anno solo le spese previste inizialmente dal governo significava spesso risparmiare parecchio. Giulio Andreotti nel 2006 disse: “L’esercizio provvisorio mica è lo stato d’assedio. Può essere vantaggioso perché si può risparmiare un po’”, lui che da primo ministro ne aveva firmati ben tre.

Quanto all’assalto alla diligenza, gli episodi più folcloristici non mancano. Nel 2021 la Lega presentò, come accennato prima, un emendamento per detassare le ostriche, proponendone l’inclusione tra i molluschi con IVA agevolata al 10%, mentre aragoste e astici sarebbero rimasti tra i cibi tassati. Tra i circa 6.000 emendamenti presentati quell’anno c’erano anche richieste di sconti sugli anticoncezionali, aiuti ai produttori di pappa reale, riduzione dell’IVA sulle prestazioni veterinarie e bonus per l’acquisto di strumenti musicali. Francesco Forte, ex ministro delle Finanze, anni fa ricordava, quasi con nostalgia: “Quando la Finanziaria era una salsiccia, si faceva ostruzionismo con emendamenti pretestuosi, chiedendo dei favori in cambio della cessazione di interventi dilatori”.

Oggi assistiamo a una mutazione più subdola. L’assalto alla diligenza si è trasformato in un teatro dell’assurdo dove si discute per settimane di tagli e aumenti di tasse senza che esistano dati specifici su cui ragionare. Il nuovo rito prevede l’approvazione finale con un maxi-emendamento votato spesso sotto fiducia, che nasconde alla pubblica opinione – e spesso agli stessi parlamentari – le decisioni realmente prese.

Il paradosso più grande emerge dalle analisi degli economisti: si passa settimane a discutere di riforme fiscali e tagli alla spesa, ma i documenti programmatici mancano sistematicamente di “informazioni sufficienti per avanzare valutazioni sulle singole misure”. Il Piano Strutturale di Bilancio parla genericamente di “riduzione del carico fiscale” e “sostegno alla natalità” senza specificare come e con quali coperture. Persino voci cruciali come le “altre entrate” che dovrebbero garantire 9 miliardi di euro rimangono misteriose. Quindi tutte le polemiche di questi giorni sono una sorta di simulazione, un assalto senza diligenza.

Questa deriva ha radici anche nelle nuove regole europee. Il Patto di Stabilità riformato, entrato in vigore nell’aprile 2024, impone piani strutturali di bilancio settennali basati sulla traiettoria della “spesa primaria netta”, un indicatore tecnico che pochi comprendono. I governi devono presentare previsioni di lungo periodo che sono, per definizione, esercizi teorici più che strumenti operativi. L’enfasi è sul contenimento della spesa e sul rientro dal deficit, mentre gli investimenti per la produttività finiscono schiacciati dai vincoli contabili.

Il risultato è una democrazia di bilancio svuotata. Non più l’indecoroso ma vitale scontro sulle priorità di spesa, ma una discussione astratta su parametri finanziari seguita da decisioni prese in extremis e nascoste tra le pieghe di emendamenti omnibus. L’assalto alla diligenza era rumoroso e imperfetto, ma almeno si vedeva chi prendeva cosa. Oggi il bilancio dello Stato viene deciso nell’ombra, con la scusa della governance europea e dell’efficienza procedurale. Una conquista della tecnocrazia, una sconfitta della trasparenza democratica.

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