Memoria e Futuro

Le bombe e il vuoto

di Marco Di Salvo 26 Agosto 2025

Non li invidio affatto, i miei colleghi che devono seguire le vicende incrociate delle due guerre quotidiane che riempiono le prime pagine dei giornali e i titoli di testa dei telegiornali.

Seguire, ad esempio, la vicenda russo-ucraina per un giornalista è come vivere in un loop infinito, un esercizio di strenuo aggiornamento che immagino spesso si scontri con la frustrante sensazione di scrivere e riscrivere le stesse cose (è così per chi legge, non vedo perché non lo sia per chi scrive). La notizia di ieri, oggi, è già superata, ma il contesto di fondo – la brutalità della guerra, la sofferenza umana, i cinici giochi dei potenti – rimane tragicamente immutato. Un drone, dieci droni, le vittime, ecc. Tutto uguale e tutto diverso, ma immutabile.

In questo scenario già complesso, le giravolte di Donald Trump aggiungono un ulteriore strato di fatica narrativa. Ogni sua dichiarazione, ogni post sui social che mina il supporto occidentale all’Ucraina o che elogia Putin, costringe le redazioni a un frenetico lavoro di decodifica e di previsione. Si deve spiegare, per l’ennesima volta, cosa significherebbe una vittoria della sua posizione (ma ce l’ha, una posizione, in fondo?) per gli aiuti militari a Kyiv. È un copione già visto, che rischia di banalizzare una minaccia esistenziale per la sicurezza europea, riducendola a un capitolo della terrificante odierna vicenda americana. Il giornalismo è costretto a rincorrere lo shock value di un tweet, mentre il rumore di fondo rischia di soffocare la sostanza del conflitto.

A questo si sommano le debolezze strutturali dell’Europa, un attore che fatica a trovare una voce unitaria e decisiva, tranne che quando va a fare visita al “sovrano” Trump, per elogiarne gli sforzi(?) per la pace(?). I giornali devono raccontare non solo i passi avanti, ma soprattutto le esitazioni, i veti incrociati, le divisioni sul ritmo degli aiuti. La polemichina del leader di partito nazionale contro il presidente della repubblica di un altro paese tiene banco per giorni nel vuoto assoluto di risposte ufficiali da parte dei rappresentanti di governo. Il racconto diventa spesso un monotono e frustrante bollettino su summit, pacchetti di sanzioni diluiti nei negoziati, promesse solenni poi disattese o implementate con colpevole lentezza. Si scrive dell’invio dei carri armati dopo mesi di dibattito, poi degli F-16, sempre con la stessa struttura: l’urgente richiesta ucraina, le divisioni interne alla NATO, i timori di un’escalation, la lenta e faticosa decisione finale. È un déjà-vu nel racconto della guerra che riflette il déjà-vu politico, e che mette a dura prova la creatività e l’energia di ogni redazione.

Il compito del giornalista diventa allora una sfida quotidiana: trovare angolazioni nuove per storie (di fatto, drammaticamente) vecchie, umanizzare i dati, fare lo sforzo di ricordare che dietro ogni titolo ripetuto ci sono vite spezzate, mentre la politica globale pare giocare al ribasso con il loro destino. È un lavoro che logora, ma che rimane un baluardo essenziale contro l’indifferenza montante ogni giorno che passa, indifferenza che pare essere la vera arma segreta di Putin e di tutti quelli come lui. Un lavoro essenziale, sempre che, per colpa della stanchezza, non si trasformi nella stanca ripetizione di un copione scritto da altri.

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