Memoria e Futuro

Le falangi della terza età

di Marco Di Salvo 22 Agosto 2025

Ultimo mohicano,

sanpietrino in mano,

solo qui nella via

e la barricata,

dove l’han portata,

non c’è proprio più

Ultimo mohicano – Gianfranco Manfredi

Lo sgombero del centro sociale Leoncavallo a Milano, avvenuto il 21 agosto 2025, non è solo l’epilogo di una lunga battaglia legale per il controllo di uno spazio fisico, ma il simbolo di un paradosso generazionale e politico che attraversa la storia italiana degli ultimi cinquant’anni.

Fondato proprio cinque decenni fa come esperimento di autogestione e controcultura, il Leoncavallo è diventato con il tempo di fatto un’istituzione clandestina, un faro della sinistra radicale che nel tempo ha sedimentato una storia collettiva, tanto da essere oggi difeso anche da alcuni di quelli che un tempo avrebbero forse contestato la sua esistenza.

La cosa che mi ha colpito di più delle immagini dello sgombero non sono state le “patetiche” parate di poliziotti e le prove di forza da parte di istituzioni buone oramai solo a compiere gesti simbolici con cui gonfiare i muscoli e fare la faccia feroce nei post sui social network, ma le canute rappresentanti del Leoncavallo interpellate dai media. Come emergeva chiaramente dalle interviste alle anziane fondatrici del centro, oggi ottantenni che presidiano le barricate con la stessa determinazione dei primi anni, si assiste a un ribaltamento dei ruoli: una volta erano i giovani a lottare contro un establishment percepito come oppressivo, mentre gli anziani si lamentavano del “caso” provocato da questi spazi. Oggi, quelle stesse persone che animarono le occupazioni degli anni ’70 sono ancora sulle barricate ma a difendere ciò che hanno costruito, mentre una nuova generazione di politici, portatrice di idee ammuffite ma che hanno presa in un paese che, come altri in giro per il mondo, invecchia malissimo, le accusa di illegalità.

Questo passaggio di testimone rovesciato è tanto poetico quanto tragico. La rivoluzione, invecchiando, prova a difendersi diventando essa stessa istituzione, aggrappandosi alla conservazione di uno status quo che un tempo voleva sovvertire. Il Leoncavallo, con i suoi murales protetti dalla Soprintendenza (ed esaltati anche da Vittorio Sgarbi) e il suo ruolo di produttore culturale riconosciuto, è un esempio di come l’autogestione possa evolversi in una forma di “istituzionalizzazione flessibile”, come notava tempo fa uno studio accademico. Ma questa trasformazione non è priva di ambivalenze: da un lato, dimostra la resilienza di un’idea di comunità; dall’altro, rivela la malinconia di un ideale che, per sopravvivere, deve combattere (perdendo inevitabilmente) con le logiche dello Stato e del mercato. Quanti di noi hanno frequentato negli ultimi decenni quello spazio non per partecipare all’azione politica enunciata da slogan e graffiti ma solo per un paio di birrette o un concerto (vero, ministro Salvini?)?

Questa storia mi ha fatto tornare in mente, oltre alla canzone di Gianfranco Manfredi di cui ho messo l’incipit all’inizio dell’articolo, un fumetto francese, Le falangi dell’ordine nero (1979) di Pierre Christin e Enki Bilal, che a mio parere offre una metafora potente per decifrare questa dinamica. La storia racconta di vecchi combattenti della guerra civile spagnola che, dopo decenni, si ritrovano per inseguire i fantasmi del passato e regolare conti mai chiusi. Sono figure disilluse, accomunate dalla nostalgia per una battaglia che definisce la loro identità, nonostante il corpo e il tempo ne abbiano eroso la forza. Allo stesso modo, i fondatori del Leoncavallo—come le anziane intervistate—sono reduci di una guerra culturale che sembra essersi spenta, ma che per loro resta l’unico orizzonte di senso. La loro resistenza allo sgombero non è solo per difendere uno spazio, ma per preservare una memoria che rischia di essere cancellata dalla retorica securitaria dei (fisicamente) giovani esponenti dell’attuale governo.

Tuttavia, c’è qualcosa di profondamente triste in questa rivoluzione invecchiata: il rischio che la lotta si riduca a una mera ripetizione di gesti rituali, svuotati del loro potenziale trasformativo. Quando la difesa della “tradizione rivoluzionaria” diventa fine a se stessa, si perde il contatto con le urgenze del presente. Il Leoncavallo, come i vecchi antifascisti del fumetto, rischia di essere intrappolato in una nostalgia che lo isola dalla comunità più ampia. Eppure, la sua storia—fatta di concerti, attività sociali e solidarietà—ricorda che l’autogestione può essere un laboratorio di innovazione, come sottolineano le infinite testimonianza sulla sua capacità di costruire cittadinanza attiva.

Lo sgombero del Leoncavallo non è quindi banalmente la fine di un’illegalità, ma l’ultimo capitolo di una contraddizione irrisolta: come conciliare la radicalità di un’utopia con la necessità di durare nel tempo? Forse la risposta sta nel riconoscere che le rivoluzioni, per non invecchiare tristemente, devono accettare di morire e rinascere, invece di aggrapparsi al passato. Come scrivevano Christin e Bilal nel loro straordinario fumetto, “dopo quarant’anni, il risultato era una collezione di asmatici, di reumatici semi-paralizzati” : una metafora cruda ma necessaria per riflettere sul destino di chi combatte battaglie che il mondo pare, almeno per il momento, aver archiviato.

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