Memoria e Futuro

Le fragili fondamenta

di Marco Di Salvo 2 Maggio 2025

Ok, dopo il profluvio di retorica degli ultimi due giorni, penso che metterò un annuncio su qualche bacheca (cartacea o virtuale). Il testo dovrebbe essere più o meno così: “Cercasi politico coraggioso per modificare seconda parte primo comma del primo articolo della Costituzione”.

La questione non è recente. Quando, nel 1946, l’Assemblea Costituente si trovò a dibattere su come inaugurare la Carta fondamentale dell’Italia repubblicana, le proposte furono varie: c’era chi, come Mario Cevolotto, proponeva un incipit descrittivo ma considerato ai tempi asettico (“L’Italia è una Repubblica democratica”), e chi, come Palmiro Togliatti, sognava una “Repubblica di lavoratori” . Alla fine, la mediazione vincente fu quella di Amintore Fanfani, che inserì la formula “fondata sul lavoro”, approvata con il sostegno trasversale di comunisti, socialisti e cattolici. Un compromesso ideologico che rifletteva comunque l’ottimismo del dopoguerra: il lavoro come strumento di riscatto, collante sociale e antidoto alle disuguaglianze.

Oggi, però, quel “fondata sul lavoro” suona come una promessa non mantenuta, o peggio, un’ironia involontaria. Non che sia mai stato davvero un obiettivo realizzabile, almeno nelle condizioni di dignità e parità prescritte dalla stessa carta costituzionale. Oggi, con l’avvento dell’IA, dei robot e degli algoritmi che sostituiscono camerieri, operai e persino giornalisti (per ora soprattutto questi ultimi), che senso ha basare l’identità nazionale su un concetto in via d’estinzione? Già più di dieci anni fa Gustavo Zagrebelsky notava  come il lavoro, da “principale” sia diventato “conseguenziale”, schiacciato dalle logiche economiche. Se un tempo si lavorava per vivere dignitosamente, oggi si vive (male) per lavorare a salari del tutto inadeguati… quando capita. E se non capita, ci pensa Netflix a consolarci.

Il problema non è solo filosofico. L’art. 1 non è una norma giuridica vincolante, ma un principio simbolico. Eppure, in un’epoca di gig economy, contratti a termine e disoccupazione giovanile al 20%, quel simbolo sembra sbiadito. Come scriveva in un interessante saggio Gianni Loy, il diritto al lavoro è oggi “conteso” tra cittadini, migranti e algoritmi. Persino la solidarietà sociale, pilastro dell’art. 2, vacilla sotto i colpi di un’economia che tratta il lavoro come merce di scambio.

Certo, c’è chi sostiene (avete sentito anche voi discorsi e moniti nelle ultime 48 ore) che il lavoro resti un valore, anche se ridefinito: dall’operaio alla influencer, dal contadino al developer di ChatGPT. Ma se un domani (auspicabile) le macchine producessero ricchezza senza di noi, la Repubblica si fonderebbe sui like? Sul metaverso? Sulla produttività dei data center?

Forse, basterebbe tornare, con un colpo di penna, al povero Cevolotto. Altrimenti rischieremmo, visto i geni che siedono sugli scranni del Parlamento a chicche come: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro… quando c’è”. O, in alternativa: “fondata sulla resilienza”. Anche perché, diciamocelo, se c’è una cosa che abbiamo imparato a fare come cittadini di questo paese (e purtroppo in maniera drammatica in ambito lavorativo), è adattarci.

Oppure potremmo lasciare il compito ad una costituente virtuale di IA. Cosa potrebbero fare di peggio, rispetto ai nostri “rappresentanti”?

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