Memoria e Futuro

Le irresistibili avventure di Ugo Calenda

di Marco Di Salvo 27 Agosto 2025

Lo sentivo l’altro giorno in un accorato intervento in Parlamento e mi dicevo “Ma quanta ragione gli darei, come lo voterei volentieri, se non fosse lui”. Lui è Carlo Calenda, detto Ugo, non per ricordare Fantozzi (nonostante l’ostentazione da parte sua di certe giacche pre-dimagrimento ne ricordino l’eleganza), ma perché lui è oggettivamente il La Malfa (padre) che possiamo permetterci in questi anni balordi.

C’è infatti qualcosa di deliziosamente ironico nel constatare come la politica italiana abbia prodotto, a distanza di mezzo secolo, due figure così simili da sembrare generate dal medesimo algoritmo: Ugo La Malfa e Carlo Calenda. Entrambi incarnano quella particolare specie di politico italiano che potremmo definire “l’europeista competente” – una figura tanto necessaria quanto sistematicamente incompresa dall’elettorato nazionale.

La Malfa, con la sua austera signorilità siciliana trasferita a Roma, e Calenda, con il suo piglio manageriale post-McKinsey, condividono l’inossidabile certezza di avere sempre ragione su tutto. Economisti per vocazione e pedagoghi per necessità, hanno passato (o passano) le loro carriere a spiegare agli italiani perché sbagliano tutto: dalla politica economica alle alleanze internazionali, dalla gestione del debito pubblico alla scelta del gelato.

Entrambi leader di partiti minuscoli ma ideologicamente purissimi (almeno a parole) – il PRI e Azione – hanno coltivato l’arte raffinata di sentirsi indispensabili pur rimanendo marginali. La Malfa orchestrava (o provava a farlo, con tremende frustrazioni) governi dalla sua poltroncina centrista, Calenda twitta soluzioni per l’Europa dal suo 3% elettorale. Cambiano i mezzi, non la sostanza: la ragione tecnocratica che batte contro l’irrazionalità populista delle masse. Certo c’è da dire che La Malfa era costretto a trattare con la balena bianca degli anni che furono e quindi non aveva molto margine di successo, ma non è che a Calenda vada molto meglio, con gli epigoni del centrosinistra che fu. Ciononostante sono sempre andati avanti per la loro strada.

Il vero capolavoro di entrambi è stato quello di trasformare la propria moderatezza in una forma di estremismo: sono così centristi da risultare rivoluzionari, così ragionevoli da sembrare visionari. La Malfa predicava l’Europa quando l’Italia guardava ancora al campanile; Calenda predica l’efficienza quando l’Italia guarda ancora ai condoni anti Bolkerstein e alla cura degli evasori fiscali.

Ma forse l’ironia più sottile sta nel loro rapporto con il potere: entrambi lo hanno corteggiato senza mai davvero conquistarlo, rimanendo eternamente all’opposizione anche quando stavano al governo. Un’opposizione di principio, fatta di distinguo, di moniti, di interventi col volto scuro e l’aria di chi vuole sempre spiegare a tutti che, come diceva Bartali “l’è tutto da rifare”. Cassandre inascoltate che finivano per attrarre solo briciole di consenso politico. E fino a che c’era il proporzionale andava pure bene la rendita di posizione. Ma la situazione per Calenda è ancora più triste, dovendo poi giocoforza allearsi con qualcuno per sopravvivere (politicamente) e quindi aggiungendo alla sua indubbia rettitudine una immagine di sfascia coalizioni (e accordi) di cui avrebbe fatto volentieri a meno.

La Malfa ebbe anche la sfortuna di morire alla fine degli anni Settanta, tanti anni prima di Tangentopoli, che avrebbe spazzato via proprio quel sistema di cui era stato il più elegante rappresentante e il più strenuo oppositore interno. Calenda, dal canto suo, si propone oggi come il suo erede, soprattutto continuando a proporre riforme che sarebbero perfette per un paese che non esiste e ostentando il volto e la postura di uno che dice “ragazzi, ma com’è che proprio non ci arrivate?”.

Alla fine, rappresentano il paradosso tutto italiano del “politico giusto (per perdere)”: troppo preparato per vincere, troppo onesto per prevalere, troppo europeo per essere davvero compreso. In fondo, non c’è niente di meno italiano che avere sempre ragione nel momento sbagliato. L’italiano vero, aspetta, e dà ragione al primo che vince. Giocando sull’amnesia collettiva che, come popolo e come nazione, abbiamo sempre orgogliosamente ostentato.

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