Memoria e Futuro

Le lunghe gambe dell’ipocrisia

di Marco Di Salvo 18 Novembre 2025

La morte congiunta di Alice ed Ellen Kessler a 89 anni ha riempito le pagine dei giornali italiani con un’ondata di nostalgia prevedibile e, tutto sommato, ipocrita. Articoli su articoli ripercorrono le loro gambe leggendarie in televisione, il celebre “Da-da-un-pa”, le apparizioni accanto a Mina e al Quartetto Cetra, la copertina di Playboy nel 1975. Ogni testata ha messo in campo i migliori “coccodrilli” conservati da chissà quanto tempo e aperto i propri archivi fotografici, rispolverando le immagini in bianco e nero di due giovani donne che incarnavano la modernità degli anni Sessanta. Chi scrive gli editoriali ha fatto il suo esercizio di memoria: ero giovane, ero impressionabile, mi ricordo quando le ho viste per la prima volta in TV.

Ma questa retorica melensa nasconde una mistificazione evidente. Tra tutte queste reminiscenze sentimentali, tra i ricordi di chi oggi ha settant’anni e le vide ballare quando ne aveva venti, c’è una domanda che tutti fingono di non vedere: come è stato possibile che due donne di 89 anni, apparentemente sane, abbiano avuto accesso contemporaneamente al suicidio assistito? È davvero credibile che fossero entrambe malate terminali? E soprattutto: che cosa dice la normativa tedesca su questo tema che permette una scelta così radicale?

Il punto è che i giornalisti italiani, i commentatori, gli opinionisti che, tranne alcune battagliere eccezioni, hanno riempito paginate con ricordi nostalgici, sanno benissimo la risposta a queste domande. Non sono ingenui, non sono sprovveduti. Conoscono perfettamente la differenza tra la normativa tedesca e quella italiana. Eppure scelgono deliberatamente di non affrontare il tema, rifugiandosi in un sentimentalismo di maniera che evita accuratamente ogni riflessione scomoda.

Questa omissione non è casuale. È la stessa ipocrisia che attraversa il dibattito italiano sul fine vita: quella di chi magari, in privato, accompagna i propri cari in Svizzera o in Germania per accedere al suicidio assistito, ma poi in pubblico fa finta di scandalizzarsi o, peggio ancora, semplicemente tace, evitando di prendere posizione. Quella di chi sa benissimo che la normativa italiana è inadeguata e che centinaia di connazionali sono costretti ogni anno al “turismo della morte”, ma preferisce non affrontare la questione per non inimicarsi l’elettorato cattolico, o per quieto vivere, o semplicemente per vigliaccheria intellettuale.

È l’ipocrisia di chi vuole poter disporre di questa possibilità per sé e per i propri familiari – magari proprio in Germania o Svizzera, lontano dagli occhi indiscreti – ma senza che se ne parli troppo in giro, senza che il tema entri davvero nel dibattito pubblico, senza che si debba prendere una posizione netta e dichiarare: sì, penso che ognuno debba poter scegliere quando e come morire, anche senza essere malato terminale.

La risposta che viene accuratamente omessa rivela un aspetto della legislazione tedesca che i commentatori italiani conoscono benissimo ma preferiscono non esplicitare. Dal 2020, quando la Corte Costituzionale federale ha dichiarato incostituzionale l’articolo 217 del codice penale che vietava l’assistenza commerciale al suicidio, la Germania ha di fatto aperto le porte a una concezione del suicidio assistito radicalmente diversa da quella di altri paesi europei. La sentenza della Corte di Karlsruhe ha stabilito un principio dirompente: il diritto all’autodeterminazione nella scelta di porre fine alla propria vita non è limitato solo a chi soffre di malattie terminali o incurabili. È un diritto che appartiene a ogni individuo maggiorenne capace di intendere e di volere, indipendentemente dalle sue condizioni di salute.

Tradotto in termini pratici: in Germania, per accedere al suicidio assistito non è necessario essere un paziente terminale, non occorre soffrire di dolori insopportabili, non serve nemmeno essere malati. Basta essere maggiorenni, capaci di intendere e di volere, e dimostrare di agire responsabilmente e di propria spontanea volontà. Questo i giornalisti italiani lo sanno. Lo sanno benissimo. Ma preferiscono non dirlo, perché dirlo significherebbe ammettere che le sorelle Kessler potrebbero non essere state malate terminali, potrebbero semplicemente aver deciso che 89 anni erano abbastanza e che non volevano correre il rischio di separarsi.

Il contrasto con la situazione italiana è stridente, e proprio per questo viene sistematicamente eluso. Nel nostro paese, il suicidio assistito è regolamentato dalla sentenza 242/2019 della Corte Costituzionale sul caso Cappato-Antoniani, che ha definito parametri estremamente stringenti. Per accedere alla procedura in Italia è necessario essere affetti da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili, ed essere dipendenti da trattamenti di sostegno vitale. Quest’ultimo requisito è particolarmente restrittivo: esclude di fatto chiunque non sia attaccato a macchinari che lo tengano in vita.

Il risultato? In Italia, dal 2019 a oggi, sono solo 16 le persone che hanno ottenuto l’autorizzazione al suicidio assistito, di cui 12 hanno effettivamente portato a termine la procedura. Numeri esigui che testimoniano quanto sia difficile, nel nostro ordinamento, ottenere questo tipo di assistenza. Molti italiani – e qui sta l’ipocrisia più grande – continuano a recarsi in Svizzera o in Germania, dove le associazioni come Dignitas, Exit e la Deutsche Gesellschaft für Humanes Sterben offrono servizi accessibili a chiunque, anche senza patologie terminali. In Germania, solo nel 2023 oltre 400 persone hanno fatto ricorso al suicidio assistito. Quanti di questi erano italiani? Quanti dei nostri concittadini, magari accompagnati da familiari che poi torneranno in Italia a celebrare pubblicamente la sacralità della vita, hanno fatto ricorso a quella possibilità? Nessuno lo dice, nessuno lo chiede.

Questa è l’ipocrisia più nauseante: quella di chi magari ha accompagnato un genitore, un coniuge, un fratello in Svizzera o in Germania, lo ha aiutato a compilare i moduli, lo ha sostenuto nella scelta, e poi è tornato in Italia raccontando magari una morte “naturale” avvenuta all’estero durante un viaggio. Quella di chi sa benissimo che se un giorno dovesse trovarsi nella stessa situazione, prenderebbe il primo aereo per Zurigo o per Monaco, ma intanto in pubblico mantiene un discreto silenzio sul tema, o peggio ancora si rifugia in posizioni ambigue che non scontentano nessuno.

È la stessa doppiezza di chi, di fronte alle sorelle Kessler, sceglie di parlare delle gambe in televisione piuttosto che della scelta di morire insieme. Di chi celebra la “romantica decisione” di due gemelle inseparabili senza mai chiedersi: ma erano davvero malate? E se non lo erano, è giusto che abbiano potuto scegliere comunque? E se è giusto per loro, perché non dovrebbe esserlo anche per i nostri concittadini?

Ciò che stupisce non è solo l’assenza di questo dibattito sui media italiani, ma la sua assenza voluta, cercata, costruita attraverso una strategia narrativa che punta tutto sulla nostalgia e nulla sulla sostanza. Forse è più comodo rifugiarsi nei ricordi delle gambe che hanno fatto scandalo in TV, del sorriso smagliante, del fascino germanico che conquistò l’Italia del boom economico. Ma questa comodità è solo un altro nome dell’ipocrisia. L’ipocrisia di chi vuole tenere aperta per sé la porta del suicidio assistito all’estero – perché non si sa mai, potrebbe servire – ma senza che questa possibilità venga discussa apertamente, senza che diventi un diritto accessibile a tutti i cittadini italiani sul territorio nazionale. L’ipocrisia di chi distingue tra il proprio dolore privato, che autorizza ogni scelta, e quello altrui, che invece va regolamentato, limitato, controllato.

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