Memoria e Futuro

Le repliche a stampa

di Marco Di Salvo 5 Agosto 2025

C’è un’aria di déjà-vu che avvolge le redazioni italiane d’agosto, più persistente del caldo africano. Mentre le città si svuotano, i giornali si riempiono di interviste agli stessi personaggi che sembrano usciti da un ciclo di programmazione pomeridiana agostana dei film di Totò o dei western d’antan: voci note, aneddoti riciclati, riflessioni che profumano di naftalina. Un rituale estivo dove l’originalità soccombe alla nostalgia, e il giornalismo si trasforma in un rassicurante jukebox di hit del passato.

Lo schema è collaudato: lì l’attore ottantenne svela per la decima volta come “felliniana” fosse la Roma degli anni ’60; altrove un politico in pensione rievoca la stagione delle stragi di stato con le stesse battute; sul quotidiano locale un cantante in declino (da almeno una ventina d’anni) ricorda la rivoluzione del primo 45 giri. Persino gli argomenti seguono un calendario prestabilito: a ferragosto spuntano i reduci delle estati versiliane e degli anni sessanta (come se i film dei Vanzina non fossero bastati), a settembre i testimoni dei primi giorni di scuola, naturalmente Vip d’accatto. Appena finisce l’attività politica o economica “reale” i quotidiani confezionano un menù di ricordi preconfezionati. È il trionfo della comfort culture, solo storie che non disturbano gli assonnati lettori.

Perché questa ossessione per il già detto? Le ragioni affondano nelle logiche della stagione morta. Le redazioni, scheletriche, puntano sul sicuro: personaggi riconoscibili richiamano lettori pigri, gli archivi offrono materiale a costo zero. Ma c’è di più: in un’estate dove gli italiani riduce le spese e le tensioni geopolitiche frenano i viaggi, il passato diventa un rifugio psicologico. Le interviste-replica sono l’equivalente giornalistico delle repliche in tv: rassicurano come l’odore della crema solare, illudono gli spettatori che nulla sia cambiato da allora.

Qualche esempio? Basta sfogliare i supplementi. Un cantautore torna a descrivere il proprio esordio con identiche parole da tre estati. Una scrittrice ripete il suo incontro esiziale con Pasolini come un mantra. Il politico in pensione ricorda con emozione la Prima Repubblica. Persino le foto sono le stesse: primi piani giovanili che contrastano con le rughe attuali.

C’è del metodo in questa follia nostalgica. I giornali applicano una semplice filosofia: perché rischiare nuovi semi quando il raccolto garantito è lì, in archivio? Il risultato è un presente sospeso, dove l’attualità sfuma e le poche eccezioni sembrano rivoluzionarie. Questa abitudine estiva dei quotidiani svela una verità scomoda: il giornalismo teme più il vuoto che la banalità. Meglio un aneddoto riscaldato che rischiare nuovi dialoghi. Ma c’è un costo: la cronaca viva si spegne, sostituita da un presente in stand-by. Mentre l’Italia affronta crisi climatiche e turismo in trasformazione, i giornali preferiscono il museo delle cere. E anche le copie vendute continuano la loro mesta discesa nell’abisso.

Forse, in fondo, questa ritualità rassicura. Come i solstizi che scandiscono il tempo da millenni, le interviste riciclate sono punti fissi in un mondo fluido. Perché se è vero che «ogni filo d’erba tagliato è frutto di mani» , ogni intervista clone è frutto di stanchezza. E mentre il mare italiano pare accogliere sempre meno vacanzieri, le pagine dei giornali navigano in acque più tranquille: quelle dove si può dire tutto, purché sia già stato detto.

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