Memoria e Futuro

L’ergastolo mediatico

di Marco Di Salvo 7 Novembre 2025

Una delle cartine tornasole dell’ottima salute della cultura forcaiola in Italia è da sempre il modo in cui si spalleggiano magistratura accusatoria e mezzi di informazione. Questo intreccio perverso, al netto dei tentativi di riforma che sono sempre stati rappresentati come “bavagli all’informazione” e che hanno avuto l’effetto limitato che vediamo ogni giorno sui giornali, alimenta un sistema in cui l’accusa diventa già sentenza nell’opinione pubblica, ben prima che un giudice si pronunci. Le conferenze stampa degli inquirenti, le intercettazioni selettivamente diffuse, gli avvisi di garanzia trasformati in gogna mediatica: tutto contribuisce a creare un corto circuito tra indagine e condanna sociale. I giornali amplificano le tesi accusatorie con titoli roboanti, mentre le sentenze assolutorie scivolano nel silenzio. Questa alleanza di fatto tra chi accusa e chi racconta le accuse ha minato le fondamenta dello Stato di diritto, sostituendo la presunzione di innocenza con una presunzione di colpevolezza che resiste persino di fronte ai verdetti definitivi. E questo, se è drammatico nei casi di cronaca nera (che oggi vivono anche dell’amplificazione dei vari podcast “true crime” che sono diventati la versione contemporanea dei feuilleton ottocenteschi) è ancora più vero quando al centro delle vicende ci sono esponenti politici.

Un caso emblematico è quello raccontato oggi da Clemente Mastella in un’intervista. L’ex ministro della Giustizia ricorda l’odissea giudiziaria che colpì lui e tutta la sua famiglia, costringendolo alle dimissioni. L’indagine condotta dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere e poi da Napoli fu di una violenza unica. La moglie, che doveva subire un intervento delicato, vide il Ros dei Carabinieri controllare l’ospedale “manco fossimo mafiosi”. Il figlio Pellegrino ricevette un avviso di garanzia perché accusato di aver comprato un’auto dalla camorra: chiese di essere ricevuto urgentemente dai magistrati, ma per due anni non gli aprirono la porta. Quella vicenda, come tante altre, si è risolta con un’assoluzione dopo undici anni di calvario. Ma quanti titoli hanno dato le stesse testate che avevano enfatizzato le accuse iniziali?

La cronaca giudiziaria italiana soffre di un altro vizio di fondo che mina la credibilità dell’informazione e distorce la percezione pubblica della giustizia: l’abuso di frasi fatte e la tendenza a cristallizzare l’immagine degli indagati sulla base delle accuse, ignorando sistematicamente l’esito dei processi. Questa prassi giornalistica crea una sorta di “ergastolo mediatico” in cui politici e personaggi pubblici rimangono marchiati dalle inchieste iniziali, anche quando vengono completamente scagionati dalla magistratura.

I titoli dei giornali ricorrono costantemente a formule preconfezionate: “mazzette”, “tangenti”, “giro di corruzione”, “manette ai politici”. Questo linguaggio enfatico e ripetitivo costruisce narrazioni parallele alla realtà processuale, alimentando un clima di sospetto permanente. Le virgolettature strategiche, l’uso del condizionale che suona come un’affermazione, e la sovraesposizione della fase delle indagini rispetto ai verdetti finali creano una giustizia mediatica che prescinde da quella reale.

Il problema non è raccontare le inchieste – legittimo dovere di cronaca – ma il disequilibrio con cui vengono trattate le diverse fasi processuali. Un’accusa di corruzione ottiene titoli a tutta pagina, conferenze stampa, retroscena e ricostruzioni dettagliate. Un’assoluzione, invece, finisce spesso in un trafiletto interno, quando non viene completamente ignorata. Questo schema si ripete con una regolarità che tradisce un approccio sistematico piuttosto che episodico.

Particolarmente insidioso è il fenomeno per cui le accuse pregresse diventano esse stesse argomento giornalistico, indipendentemente dal loro esito. Un politico viene citato come “già indagato per corruzione” anche quando quella vicenda si è conclusa con un’assoluzione piena. L’espressione “non nuovo a vicende giudiziarie” accompagna nomi che hanno ricevuto verdetti di innocenza, creando una narrazione di colpevolezza implicita costruita su processi che hanno dimostrato esattamente il contrario.

Questo meccanismo si autoalimenta: ogni nuova inchiesta richiama le precedenti, e ogni articolo successivo ripete l’elenco delle accuse passate senza mai specificare che si sono risolte con assoluzioni. Il risultato è un curriculum giudiziario distorto in cui solo le ombre vengono ricordate, mentre le luci vengono sistematicamente cancellate.

La vicenda giudiziaria di Saverio Romano rappresenta un altro caso paradigmatico di questa dinamica. Esponente politico siciliano, più volte ministro e sottosegretario, Romano è stato coinvolto in diverse inchieste che hanno ricevuto ampia copertura mediatica, tra cui un’indagine per concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione avviata nel 2003. Tuttavia, nel 2005 il giudice per le indagini preliminari accolse la richiesta di archiviazione della Procura, non riuscendo ad accertare gli incontri contestati né a trovare riscontri alle dichiarazioni dei pentiti. Nel 2012, Romano fu prosciolto dal giudice per le indagini preliminari con la formula dell’insufficienza di prove in un’altra vicenda riguardante il concorso esterno in associazione mafiosa.

Tutte le vicende giudiziarie legate a Francesco Saverio Romano si sono concluse con archiviazione o assoluzione. Eppure, quando nei giorni scorsi è emersa una nuova inchiesta a suo carico, i giornali hanno immediatamente ricordato le vecchie indagini, senza specificare con la stessa enfasi che si erano tutte risolte favorevolmente per l’interessato.

Questo squilibrio informativo ha conseguenze profonde sulla qualità democratica. Distorce il dibattito pubblico, condiziona le scelte elettorali sulla base di percezioni errate, e alimenta un clima di sfiducia generale verso la politica che non distingue tra colpevoli e innocenti. Quando un cittadino forma la propria opinione su informazioni parziali – ricordando le accuse ma non le assoluzioni – il suo voto è inevitabilmente viziato.

La responsabilità dei media è duplice: da un lato garantire il diritto di cronaca sulle inchieste giudiziarie, dall’altro assicurare che l’informazione sia completa e bilanciata. Questo significa dare uguale rilievo alle assoluzioni, aggiornare sistematicamente le narrazioni quando emergono nuovi elementi, e soprattutto evitare di richiamare accuse superate come se fossero ancora pendenti.

I casi Mastella e Romano, come molti altri, dimostrano che serve un cambiamento culturale nel giornalismo giudiziario italiano: meno frasi fatte, più rigore nell’aggiornamento delle informazioni, e una maggiore consapevolezza dell’impatto che l’informazione distorta ha sulla vita delle persone e sulla salute democratica del Paese. Così si costruisce una democrazia malata, dove l’innocenza non basta più a restituire la dignità rubata da un titolo di giornale. E dove la giustizia vera, quella che assolve, diventa un dettaglio trascurabile nella narrazione del sospetto permanente.

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