Memoria e Futuro
Lo sciopero dei lettori
Come era da aspettarsi, la vendita di Repubblica e La Stampa è diventato in poco tempo l’argomento più caldo e dibattuto sui quotidiani italiani. I giornali ne parlano ossessivamente, gli editoriali si moltiplicano. Theodore Kyriakou, il gruppo Antenna, i sauditi, la democrazia in pericolo. Tutto vero, tutto legittimo. Ma c’è qualcosa di paradossale: mentre i giornali parlano dei giornali, nessuno vuole ammettere la verità più evidente. I lettori se ne sono già andati. Da tempo.
Ma c’è sempre pronto il mantra (buono anche per l’erogazione di soldi pubblici a fondo perduto): la crisi dell’editoria. Come se fosse un fenomeno naturale, un destino ineluttabile. Come se i giornali fossero vittime di forze cosmiche e non di precise scelte imprenditoriali. La Fieg parla di “desertificazione della rete di vendita” che impedisce ai cittadini di comprare giornali. La soluzione? Distributori automatici. La risposta al fatto che nessuno compra più i giornali sarebbe metterli in più posti dove non comprarli.
I dati sono impietosi e vengono citati con la diligenza di chi recita un rosario. Le copie cartacee si sono ridotte del 35,4% in quattro anni. Il digitale, la grande promessa: circa 190.000 copie giornaliere, con una crescita di appena l’1,7% in quattro anni.
Le edicole stanno sparendo: in dieci anni sono scomparsi 6.197 punti vendita, un terzo della rete. Ma la narrazione dominante capovolge causa ed effetto: le edicole chiudono perché non si vendono giornali, non il contrario.
Ed ecco anche il grande alibi: gli italiani non leggono. È la giustificazione perfetta, l’autoassoluzione collettiva dell’industria editoriale. I dati Istat vengono sventolati come prove a discarico. Il Sud legge meno del Nord. I giovani preferiscono i social.
Tutto vero. Ma profondamente disonesto come argomentazione, anche perché non è che l’Italia abbia mai brillato, neanche negli anni che ora vengono ricordati come d’oro, per file alle edicole dove acquistare i quotidiani. Perciò questi dati sulla lettura in generale vengono utilizzati per spiegare il crollo dei quotidiani, come se tra le due cose ci fosse un nesso automatico. Come se il problema fosse che “la gente non legge”, e non che “la gente non legge questi giornali”.
Eppure basta vedere le cronache per capire uno dei problemi principali. I giornali italiani seguono il flusso delle notizie del giorno piuttosto che l’attualità in senso più ampio, diventando un “happening quotidiano” che non offre molto di diverso da TV e radio. Ma queste analisi restano confinate tra addetti ai lavori e buoni per le lamentele tra colleghi frustrati.
L’editoria italiana ha trasformato la “crisi della lettura” in una coperta di Linus sotto cui nascondere ogni fallimento. Non funziona il paywall? Colpa degli italiani che non pagano per l’informazione. Calano le copie? Gli italiani leggono poco. I giovani non comprano giornali? Stanno sempre al telefono. Ogni dato negativo viene ricondotto a una supposta inferiorità culturale del pubblico, mai a scelte sbagliate di chi quei giornali li fa.
Allora ecco un altro comodo alibi: in Italia non esistono editori puri ma imprenditori che operano in altri settori e hanno investito nei giornali per interessi politici. Dalla fine degli anni Ottanta hanno puntato sulla pubblicità mettendo le vendite in secondo piano, poi hanno ritardato a comprendere internet e hanno permesso la diffusione gratuita delle notizie online. E quindi?
Mutatis mutandis, si può anche fare un parallelo tra quelli che dicono che non ci sono editori di sinistra pronti a acquistare Repubblica e La Stampa e quei tifosi di calcio che si lamentano del fatto che gli imprenditori locali non comprino le squadre in crisi delle loro città. Entrambi non si chiedono mai perché questo non accada. Sognano ancora il cavaliere bianco (o rosso, in questo caso).
Le autocritiche in genere sono rare. Chi è dentro il sistema preferisce la narrazione della fatalità. La “tempesta perfetta”. La “transizione digitale”. Termini che trasformano responsabilità precise in fenomeni atmosferici.
Quando Massimo Giannini definisce la cessione ai greci “l’indegno coronamento di 50 anni di storia”, dice una verità dolorosa. Ma quella storia non è stata scritta dagli algoritmi o dalla scarsa alfabetizzazione degli italiani. È stata scritta da editori che hanno trattato i giornali come pedine, da dirigenti che hanno tagliato le redazioni mentre si assicuravano bonus milionari, da giornalisti che hanno preferito il conformismo di parte alla scomodità dell’inchiesta senza paraocchi ideologici.
La verità è che l’industria editoriale italiana ha perso il contatto con i lettori molto prima che i lettori perdessero interesse. Ha scelto di parlare alla politica invece che ai cittadini. Di inseguire i click invece che le storie. Di risparmiare sui contenuti invece che investire nella qualità. E quando tutto questo ha prodotto il tracollo, ha deciso di dare la colpa agli italiani che “non leggono”.
I dati sulla lettura in Italia sono uno spauracchio comodo. Permettono di evitare domande scomode. Se il problema è che “gli italiani non leggono”, non c’è nulla da fare: è un problema antropologico. Se invece il problema è che “questi giornali non meritano di essere letti”, bisognerebbe cambiare tutto. E cambiare è faticoso, rischioso.
Lo sciopero dei lettori è già avvenuto. Silenzioso, progressivo, inesorabile. Non c’erano picchetti, né slogan. Solo un gesto quotidiano ripetuto milioni di volte: passare davanti all’edicola senza fermarsi. Aprire il browser senza cercare il sito del quotidiano. Scegliere altre fonti. Che siano qualificate o meno. E poi, qualificate, da chi? Da quelli che sparano titoli acchiappa allocchi?
E ora che le vendite sono crollate e gli editori svendono, qualcuno ha ancora il coraggio di dare la colpa agli italiani che non leggono. Come se il problema fosse il pubblico, e non il prodotto. Come se bastasse invocare dati Istat per nascondere decenni di scelte sbagliate.
Ma i lettori hanno già votato. Con i piedi, con il portafoglio chiuso, con l’indifferenza. Il loro sciopero continua, giorno dopo giorno. E continuerà, finché qualcuno avrà l’onestà di ammettere che il problema non sono gli italiani che non leggono. Sono i giornali italiani che hanno smesso di meritare di essere letti.
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