Memoria e Futuro
Mozione d’ordine
Essendo coinvolti nelle vicende in maniera SOCIALmente attiva, a volte si rischia di perdere la prospettiva delle cose. Spesso si rischia di concentrarci su vicende veramente marginali e farle diventare il centro del dibattito. Pensiamo ad esempio su cosa hanno titolato oggi i quotidiani (ed è stato il piatto principale della dieta mediatica di ieri), il dibattito parlamentare sulle mozioni di approvazione o rifiuto del piano di pace di Trump (si, lo so che i testi non erano centrati solamente su questo ma la sintesi giornalistica di questo parlava). In quanti altri paesi al mondo si è tenuto nelle stesse ore o nei giorni precedenti un dibattito parlamentare di questo tipo? Basterebbe infatti fare un giro delle testate internazionali on-line e cartacee per scoprire che, dal momento in cui Donald Trump ha presentato il suo presunto piano di Pace per risolvere la situazione Gaza, non c’è stato alcun altro Parlamento se non quello italiano che si sia impegnato in maniera così infervorata sul dibatterne il contenuto fino a proporre delle mozioni che ne approvavano o disapprovavano la linea.
Ma cosa sono, in fondo, queste mozioni? Secondo il regolamento delle Camere italiane, una mozione è, formalmente, uno dei principali strumenti a disposizione del Parlamento. Il suo scopo è nobile e fondamentale in una democrazia: indirizzare la politica del Governo su un determinato argomento, impegnandolo a compiere azioni specifiche. In teoria, è l’essenza del controllo democratico sull’esecutivo. In pratica, specialmente quando si parla di politica estera, questo strumento si trasforma spesso in un’arma spuntata, utile non a incidere sulla scena internazionale, ma solo ad alimentare il teatro della polemica interna.
La recente discussione sul piano di pace per Gaza presentato da Donald Trump ne è l’esempio perfetto. Il 2 ottobre, la Camera ha votato non su una, ma su diverse mozioni. La maggioranza di governo ha presentato la sua, impegnando un esecutivo già d’accordo ad agire in linea con una politica che stava già perseguendo. Azione e Italia Viva hanno fatto altrettanto. Il Partito Democratico, il Movimento 5 Stelle e l’Alleanza Verdi-Sinistra ne hanno presentata un’altra, puntualmente respinta.
Qui emerge la cruda realtà sulla funzione di questi atti: per usare un francesismo, non servono a un c****. La politica estera italiana non è cambiata di una virgola a seguito di quel voto. Il Governo Meloni era già allineato con la posizione atlantista ed europea di sostegno al piano (meglio, continua ad essere il vassallo perfetto del wannabe king che sta alla Casa Bianca); le mozioni approvate non hanno fatto altro che ratificare l’ovvio, permettendo alla maggioranza di rivendicare il merito di una linea politica già tracciata. A cosa è servita, allora, la mozione delle opposizioni, destinata a sicura bocciatura? Unicamente a marcare una differenza, a mandare un segnale al proprio (sempre più esiguo) elettorato. Non potendo opporsi frontalmente a un piano di pace sostenuto da tutti, si è cercato il cavillo, la sfumatura, per poter dire: “noi siamo diversi”.
Questo esercizio di posizionamento non ha alcun impatto reale sul conflitto a Gaza o sul ruolo dell’Italia come mediatore (presunto e autonominato). Il suo unico effetto è interno: alimenta un dibattito sterile, crea titoli di giornale e permette a ciascun partito di recitare la propria parte. La maggioranza si mostra compatta e allineata con i partner internazionali; le opposizioni si ergono a coscienza critica, anche quando la critica è fine a se stessa; i partiti di centro si ritagliano uno spazio da “responsabili”. Il risultato è che, mentre il mondo forse si muove verso una soluzione, il Parlamento italiano usa la politica estera come un palcoscenico per le sue beghe domestiche, dimostrando un’impotenza sostanziale mascherata da un’intensa, ma inutile, attività.
In conclusione, il “circo” delle mozioni oramai da anni nel nostro paese non sta nell’avere un dibattito, ma nel permettere che questo si disperda senza una direzione. In un mondo dove le alleanze si costruiscono e le posizioni contano, un Parlamento che rinuncia a definire la propria voce, scegliendo il chiasso polifonico su una linea chiara, compie una scelta precisa: sceglie di non contare, e consegna de facto la politica estera alla sola iniziativa governativa, senza l’indirizzo e la legittimità che solo un voto parlamentare unitario può dare. E tutto questo senza bisogno di premierato o di altre modifiche costituzionali che aumentino il potere dell’esecutivo. Per quello serviranno altri dibattiti, altrettanto inutili.
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