Memoria e Futuro

Ne parliamo lunedì

di Marco Di Salvo 6 Giugno 2025

D’accordo, d’accordo. Lunedì andrò a votare con l’entusiasmo di chi va dal dentista. Andrò tra l’ora di pranzo e il termine ultimo delle 15. E lo farò, perché credo nella democrazia diretta, nonostante tutto e tutti, promotori e dissuasori.

Mi sono nutrito di campagne referendarie nei miei anni di formazione politica, dalla raccolta di firme, alla pulizia dei moduli, alla consegna in Cassazione. Raccolsi firme anche quando non potevo ancora votare, per i referendum sulla giustizia e ambientali del 1987.

Ma questi cinque referendum dell’8-9 giugno mi hanno fatto sentire come un critico musicale costretto ad ascoltare l’ennesimo talent show. Tecnicamente perfetti (almeno così ha stabilito, nella sua giurisprudenza altalenante, la Corte Costituzionale), giuridicamente ineccepibili, politicamente… svuotati. E non riesco a togliermi di dosso l’idea che i promotori avessero preso lo strumento più potente della democrazia (se usato in maniera corretta) e l’avessero usato per aggiustare il rubinetto che perde. Anche questo ha reso difficile il confronto sui temi, soprattutto quelli del lavoro.

Prendiamo l’art.18: non è difficile dire, a meno che non si sia promotori, che questo referendum è nato vecchio. O, meglio, che lo strumento abrogativo non può essere usato per questi temi in questo modo. Stiamo votando per tornare a una norma del 1970 per abrogare una riforma del 2015. Nel 2025. È come votare per reintrodurre la lira per protestare contro l’euro.

Non è che la questione non sia importante. È che arriva con dieci anni di ritardo, trasformata in un’operazione nostalgia invece che in una proposta per il futuro.

I quesiti sui contratti sono il trionfo della micro-ingegneria giuslavoristica. Causali, durata massima, numero di rinnovi. Roba non da democrazia diretta. Lavoro da Parlamento, se il Parlamento fosse in grado di fare il suo lavoro. Io che ho voluto leggere tutto, che so cos’è un contratto a termine e cosa significa “prima applicazione”, che ho letto anche le sentenze della Cassazione, quando vedo queste schede penso: “Ma davvero stiamo usando il referendum per questo?”

Il referendum è uno strumento di rottura, di scelta netta. Qui stiamo usando una mazza per infilare un chiodo. Funziona, ma non è elegante.

Il quarto e il quinto sarebbero i più “comunicabili”.

Prendiamo il quarto. Abrogazione delle norme sulla vigilanza in materia di sicurezza sul lavoro. Questo dovrebbe essere il quesito più facile: la sicurezza è sacra, tutti d’accordo, votiamo SÌ e torniamo a casa. Invece no. Anche qui si tratta di modifiche tecniche, di competenze tra enti, di procedure amministrative. Roba importante, per carità, ma che c’entra con la democrazia diretta?

È come se per protestare contro la guerra mondiale organizzassimo un referendum sulla divisa dei soldati.

L’ultimo, quello che parla della riduzione da dieci a cinque anni del periodo di residenza per la cittadinanza. Ecco, questo è un referendum vero. Chiaro, netto, ideologico. Da una parte chi pensa che dieci anni siano giusti, dall’altra chi li considera troppi. Scegli e vota.

Questo quesito mi ha fatto tornare l’entusiasmo di una volta. Finalmente una scelta politica vera, non un aggiustamento tecnico. Guarda caso, quello che è stato silenziato di più, il quesito che, nel complesso di una mancata comunicazione istituzionale, è stato relegato in fondo, quasi rinnegato anche dalla stessa CGIL che ne ha raccolto le firme.

Mentre penso a quando andare a votare, rifletto su quello che è successo al mio amato referendum. È diventato un arnese da battaglia politica quotidiana invece che uno strumento di scelta democratica straordinaria.

Una volta i referendum si facevano per le grandi questioni: divorzio sì o no, aborto sì o no, nucleare sì o no. Erano momenti di democrazia alta, occasioni per discutere del paese che volevamo.

Poi, all’inizio degli anni novanta, ci fu la svolta “elettorale”, svolta concessa da una Corte Costituzionale che permise di emendare le leggi e non solo di cancellarle nella sua interezza. Da quel momento in poi quasi tutti i referendum si fanno per correggere gli errori del legislatore, per fare opposizione con altri mezzi, per mandare messaggi al governo. Tutto legittimo, tutto costituzionale. Ma anche tutto tremendamente noioso.

Questi cinque quesiti soffrono della sindrome del referendum tecnico: sono giusti, necessari, ma non emozionano. Sono come l’ennesimo disco dei Rolling Stones ottantenni: ben fatto, ineccepibile, ma non ti cambia la vita.

Il referendum dovrebbe essere il momento in cui il popolo prende in mano il destino del paese. Questi sembrano più un esame di diritto del lavoro a domande multiple.

L’ironia è che io, che conosco tutto sui referendum, che ho seguito la raccolta firme, che ho partecipato ai dibattiti, sarò quello che esce dal seggio meno convinto.

Forse è colpa mia, forse ho idealizzato troppo questo strumento. Forse pretendo troppo dalla democrazia diretta. Ma quando vedo persone che votano SÌ a tutto perché “tanto il governo deve cadere” o NO a tutto perché “non si cambia niente”, mi viene da pensare che abbiamo banalizzato qualcosa di prezioso.

Il referendum è come il vinile: bellissimo, ma va usato per la musica giusta. Non puoi mettere la trap su un giradischi vintage e aspettarti che funzioni. E comunque, anche con la musica giusta, non ti restituirà mai i tuoi vent’anni.

Questi referendum del 2025 sono (forse) tecnicamente perfetti ma emotivamente vuoti. Servono a correggere errori del passato, non a immaginare il futuro. Sono chirurgia, non rivoluzione.

Voterò SÌ a tutto, perché comunque rappresentano un miglioramento rispetto all’esistente. Ma lo farò senza entusiasmo, come si fa la spesa al supermercato: necessario, ma non esaltante.

Il referendum rimane uno strumento magnifico della democrazia. Ma forse dovremmo usarlo con più parsimonia e più ambizione. Meno micro-ingegneria giuridica, più grandi scelte di civiltà.

Oppure dovremmo accettare che anche i referendum sono diventati normali, quotidiani, tecnici. Parte del gioco democratico ordinario invece che momenti straordinari di partecipazione popolare. E, visto il livello del gioco democratico ordinario del nostro paese, la crisi del referendum è solo un’altra faccia della crisi generale del paese.

Ma non mi convincerete mai, che questa trasformazione è un segno di maturità democratica, quando persino gli strumenti più nobili diventano routine.

A me la routine non è mai piaciuta. Preferivo quando i referendum facevano paura al potere.

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