L'arco di Ulisse
Nessun’altra parola, se non la pietà
Ormai è assodato: rendere visibile ciò che il potere vorrebbe occultare non basta per smascherare l’infamia di uno Stato, l’azione crudele di un governo, gli attacchi brutali di un esercito. Neanche l’immagine che documenta l’osceno di un assalto bellico si rende persuasiva per dimostrare la disumana spietatezza degli oppressori. Mi chiedo se osservare un’ingiustizia senza avvertirla sulla propria carne possa essere sufficiente per scriverne, o parlarne, tanto più che se neanche l’immagine assurge a prova inconfutabile di un crimine, come può esserlo la parola? Potrebbe mai la riflessione riuscire laddove i fotogrammi di una realtà fedelmente riprodotta non hanno fatto breccia? Nella contemporaneità i conflitti sono sempre più definiti dalla loro spettacolarizzazione mediatica, e la narrazione viene cooptata dai poteri stessi che ne garantiscono la veicolazione e la visibilità, dando luogo al fenomeno che contribuisce fortemente a mettere al riparo Trump e Netanyahu dall’onta di essere universalmente riconosciuti e perseguiti come complice e artefice di crimini contro l’umanità. In questo caso prevale il racconto frammentato dell’informazione tenuta sotto controllo, a cui si aggiungono i contenuti minimi e ridotti dei social a dare man forte, si fa per dire, al tentativo di restringere una tragedia umana, come quella di Gaza, a un argomento mediatico velocemente consumabile. Pertanto, se l’IDF assalta, distrugge, assassina persone indifese e spara addosso alle donne e ai bambini in fila per un pezzo di pane e un secchio d’acqua sta solo assolvendo a un dovere reso sacrosanto dagli interessi di Israele e degli Stati Unititi, contro cui il resto dell’Occidente, rappresentato dalla politica delle nazioni, non ha nulla da osservare.
Diventare insensibili alla sofferenza altrui vuol dire decretare la fine dell’umanità, data per estinta tante volte senza che nessuno ci abbia mai creduto per davvero, in special modo i furbi di sempre, quelli avvinghiati al potere di turno, che continuano a negare ogni principio di iniquità, prepotenza e abuso, nel prosieguo delle loro esistenze goderecce. Dovremmo cominciare a chiederci cosa distingue l’umano dal disumano, lasciando perdere per una volta il giusto e il bello, e ristabilendo l’importanza del significato autentico della parola, sempre più impersonale e ripetitiva, del tutto incapace di farsi pietas profonda e tradurre l’indignazione in una scelta comune di appartenenza ideologica. Tanto per intenderci: gli spagnoli hanno eletto Pedro Sanchez, non un servo di Trump, non un complice di Netanyahu, non un menzognero che truffa il popolo che governa. E ho il sospetto che la vita in Spagna possa essere meno alienante che in Italia. Sarebbe ora che il dolore proveniente dall’esterno, da esistenze geograficamente lontane, dalla tragedia di popoli trucidati, a cui hanno devastato la terra e tolto ogni alternativa alla sopravvivenza in un altro luogo, prendesse corpo nella nostra considerazione e diventasse parte viva di noi, sì che sostenere la causa palestinese significasse impegnarsi per una nostra ragione personale. Credo sia questo il primo atto di una testimonianza che può diventare trasformazione, cambiamento, solidarietà. Le parole, nel contesto generale di un circo mediatico ingigantito a dismisura per disperderle e svuotarle di contenuto, non vanno oltre l’immagine reale. Ma qualcuna, non tutte, può raggiungere l’optimum e venire contemplata, facendo del bene, o del male.
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