Memoria e Futuro

Onori di carta (straccia)

di Marco Di Salvo 5 Dicembre 2025

La vicenda di Francesca Albanese, relatrice “speciale” ONU per i territori palestinesi, è un perfetto esempio di quella peculiare arte nazionale che consiste nel trasformare i riconoscimenti istituzionali in un gioco delle tre carte, fatto per abbindolare gli allocchi di passaggio. Per alcuni mesi diversi comuni hanno fatto a gara per conferirle l’onorificenza, e oggi la sfida è a prenderne le distanze. Carta vince, carta perde. Le cittadinanze onorarie vengono proposte, votate e ritirate (o congelate) come quelle prove gratuite di un mese degli abbonamenti online, con tanto di clausola “cancella quando vuoi”.

Ma la cosa davvero imbarazzante per questi rappresentanti istituzionali di comunità (più o meno) prestigiose è un’altra: dove erano tutti questi benpensanti quando Albanese dichiarava che Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoah, non era “lucida” sul genocidio di Gaza a causa di un “condizionamento emotivo”? Quando paragonava le dichiarazioni della senatrice a vita a quella di un malato di tumore che non può fare diagnosi perché serve “un oncologo”?  Quando lasciava lo studio di La7 proprio mentre si citava il nome di Segre? Silenzio. Anzi, applausi e cittadinanze pronte.

E quando a Reggio Emilia umiliò pubblicamente uno di loro, il sindaco Marco Massari sul palco del Teatro Valli, “perdonandolo” con occhiolino al pubblico per aver osato menzionare la liberazione degli ostaggi israeliani come causa dello scatenante del 7 ottobre? Ancora silenzio. Il sindaco riceveva una lezioncina mentre le consegnava la cittadinanza onoraria, e nessuno trovò nulla da ridire.

C’è voluta la visibilità dell’aggressione alla Stampa, l’immagine dei vetri rotti, la violenza fisica e tangibile, perché improvvisamente tutti si accorgessero che forse, dopotutto, Albanese non era proprio il modello ideale di cittadina onoraria. E, quasi paradossalmente, nel momento in cui la stessa Albanese, ad ascoltarla bene, aveva tenuto un po’ a freno la sua hybris, sostenendo pacatamente e senza eccessiva spocchia le sue ragioni e facendo partire il ragionamento sulle responsabilità della stampa dalla considerazione primaria che chi manifesta lo deve sempre fare in maniera nonviolenta. Ma lì c’erano a farle da contraltare le immagini di una violenza, su oggetti e luoghi, non giustificabili. La violenza verbale contro una sopravvissuta all’Olocausto? L’umiliazione pubblica di un sindaco? Quelle evidentemente andavano bene.

La verità è semplice: la violenza contro un giornale ha dato immagini televisive. Ha fatto notizia. Ha messo in imbarazzo chi aveva proposto quella cittadinanza. Le parole contro Segre, l’umiliazione di Massari erano episodi più sfumati, facilmente ignorabili. Come se la violenza verbale contro una novantacinquenne sopravvissuta ad Auschwitz, o il pubblico ludibrio di un primo cittadino, fossero meno gravi di una vetrata rotta.

Ma se le cittadinanze onorarie sono diventate merce di scambio politico gestita con l’etica di un abbonamento online, le lauree honoris causa italiane hanno raggiunto livelli di produzione industriale che farebbero invidia alla FIAT degli anni d’oro. Nel 2000 ne furono conferite una cinquantina in tutta Italia, mentre nel 2007 si arrivò quasi a duecento. L’Università di Bologna da sola, dal 1888 a oggi, ne ha conferite oltre 600. Con una ottantina di atenei attivi, arriviamo potenzialmente e facilmente a diverse centinaia all’anno.

Confrontiamo con l’estero. Oxford conferisce tra 6 e 9 lauree honoris causa all’anno. Harvard ne assegna 6-7 annualmente, Cambridge ha una regola precisa: normalmente non più di otto all’anno. La Sorbona è ancora più parsimoniosa. Il rapporto? L’Italia ne distribuisce probabilmente 30-40 volte di più in proporzione.

La differenza? All’estero una laurea honoris causa mantiene un’aura di esclusività quasi monastica. Devi aver cambiato il mondo, o almeno un pezzetto significativo. In Italia basta aver fatto qualcosa di vagamente attinente a una delle 47 facoltà (e relative sotto categorizzazioni) che compongono l’ateneo. Hai vinto Sanremo? Laurea in Lettere. Hai aperto una startup? Ingegneria gestionale. Hai fatto un gol importante? Scienze motorie ti aspetta.

Le università britanniche e americane hanno commissioni che impiegano mesi per vagliare candidature. Cercano persone il cui contributo sia innegabile, documentato, duraturo. Le università italiane sembrano invece seguire il criterio della disponibilità: chi può venire alla cerimonia? Il rettore conosce qualcuno famoso? C’è qualche nome che farebbe bella figura sul sito web dell’ateneo?

C’è però una cosa che differenzia, almeno finora, le lauree honoris causa dalle cittadinanze onorarie nel nostro paese. Se le università italiane distribuiscono lauree honoris causa con generosità, sono però molto più restie a ritirarle. All’estero la revoca esiste ed è praticata. L’Università di Fordham ha revocato la laurea honoris causa conferita nel 2001 a Bill Cosby, così come l’Università del Connecticut dopo le accuse di violenza sessuale. In Europa, specialmente in Germania, i diplomi possono essere revocati per cattiva condotta personale. Persino l’Università di Losanna, che conferì nel 1937 un dottorato honoris causa a Mussolini, ha ammesso che fu un “grave errore”, anche se non l’ha mai revocato per mancanza di base giuridica.

In Italia? Silenzio. Dopo la laurea honoris causa dell’Università di Sassari a Gheddafi, ci furono proteste di docenti di tutte le università italiane che chiedevano la revoca. Ma non risultano revoche effettive documentate. Le università italiane sembrano seguire un principio non scritto: una volta data, la laurea honoris causa è per sempre. Anche quando il premiato diventa imbarazzante. Forse perché revocarla significherebbe ammettere di aver sbagliato la prima volta. E in Italia, si sa, è sempre più difficile ammettere un errore che ripeterlo.

C’è una tristezza di fondo in questa inflazione degli onori seguita da deflazione d’emergenza. Le lauree honoris causa e le cittadinanze dovrebbero essere momenti di riflessione collettiva su cosa una comunità valorizzi davvero. Dovrebbero rappresentare un consenso ampio su chi meriti riconoscimento. Invece sono diventate strumenti di marketing per gli atenei o di posizionamento politico per i comuni, distribuiti con leggerezza e ritirati con panico.

L’Italia continua nella sua generosa follia onorifica, dove tutti possono essere cittadini onorari ovunque finché il vento non cambia. Dove puoi attaccare Liliana Segre e nessuno dice nulla, dove puoi umiliare un sindaco e ricevere applausi, ma se qualcuno irrompe in un ufficio vuoto, fa casino sulle scrivanie e imbratta i muri improvvisamente tutti si ricordano di avere dei valori.

Forse è il momento di riscoprire l’importanza della coerenza, oltre che della rarità. Un’onorificenza data a tutti non onora nessuno. Ma un’onorificenza ritirata solo quando conviene politicamente dimostra che i nostri principi valgono meno di un ciclo di notizie.

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