Memoria e Futuro
Panchine lunghe
Dopo aver cominciato a leggere il libro del “nostro” Giuseppe Alberto Falci, “A corto muso“, che ha l’ambizione di raccontare Massimiliano Allegri come “il primo leader politico del calcio italiano: divisivo come Berlusconi, ironico come Renzi, stratega silenzioso come Andreotti”, (e, fidatevi, ci riesce benissimo) la mia mente ha cominciato a vagare e ho immaginato la situazione opposta. Non quella di un allenatore (con capacità “politiche”) che gestisce personalità ingombranti, ma quella di una squadra – il centro-sinistra italiano – circondata da troppi ex politici (allenatori) che non riescono a smettere di commentare, consigliare, dettare la linea. Troppi padri nobili che, ciclicamente, si presentano davanti ai microfoni come mister in pensione pronti a dare la formazione, pur non essendo più sulla panchina da anni. O non essendoci mai stati.
Immaginate una squadra dove tutti gli ex allenatori, invece di ritirarsi con dignità, continuino a convocare conferenze stampa descrivere la loro formazione ideale e le tattiche con cui aggredire le partite. Non è, a pensarci bene, molto difficile da immaginare, guardando un contesto diverso da quello calcistico: è la fotografia perfetta del centro-sinistra italiano, affollato di padri nobili che ciclicamente si ricordano di avere qualcosa da dire. E quando parlano, non è solo per raccontare aneddoti del passato e fare la ruota, ma per dettare la strategia, criticare il presente, proporre nuove formazioni tattiche. Ma che allenatori fanno venire in mente questi soggetti?
Romano Prodi è il Trapattoni della situazione: dalla sua cattedra di emerito chiede attenzione al voto moderato, invoca l’unità, ricorda quando lui vinceva (due volte!) contro Berlusconi. Come Trapattoni nei suoi ultimi anni quando viene ciclicamente intervistato, Prodi ha quel tono bonario ma perentorio di chi ha vinto tutto e si sente in dovere di spiegare agli altri dove sbagliano. Le sue interviste trasudano esperienza, ma anche quella certezza che solo chi ha vinto può permettersi: “Io avrei fatto così”, ma, come Trapattoni, forse il suo tempo è passato e, a differenza dell’allenatore lombardo, che si è ritirato di buon grado, il professore fatica a rendersene conto.
Massimo D’Alema è invece lo stratega alla Arrigo Sacchi: l’allenatore romagnolo che ha rivoluzionato il calcio con idee innovative, che tutti riconoscono come un genio tattico, ma che alla fine ha vinto molto meno di quello che prometteva. Come Sacchi – un solo scudetto e una Coppa dei Campioni al Milan nonostante il gioco spettacolare e le teorie rivoluzionarie – anche D’Alema sembrava destinato a dominare per anni, ma i risultati non hanno mai rispecchiato le aspettative. Eppure, come Sacchi, D’Alema non si limita a commentare: analizza, spiega, lancia riflessioni puntute. Quando parla, non lascia spazio a interpretazioni alternative, con quella certezza di chi è convinto che il suo calcio-idea fosse perfetto, anche se i trofei sono stati pochi.
Walter Veltroni, oggi intervistatore di punta ed editorialista del primo quotidiano italiano, è il Fabio Capello del centro-sinistra. Come Capello, Veltroni ha vinto, ma mentre l’allenatore friulano è stato capace di essere vincente anche all’estero, lui ha primeggiato solo nel cortile di casa (sindaco a Roma, le primarie del 2007, la leadership del PD), sempre con quel senso di incompiuto, di potenziale non del tutto espresso. Veltroni ha costruito il Partito Democratico ma non è mai arrivato a Palazzo Chigi. Entrambi sono tecnici rigorosi, metodici, capaci di costruire squadre solide, ma forse troppo prudenti nei momenti decisivi. Oggi, da intervistatore e opinionista, Veltroni non smette di fare sentire il suo pensiero: mai troppo aggressivo, sempre elegante, sempre misurato, ma presente. È l’allenatore che si è reinventato giornalista ma che non può fare a meno di suggerire, con garbo e competenza, come si dovrebbe giocare. Tra tutti gli ex è, forse, il meno fastidioso, ma c’è sempre, sullo sfondo, quasi in attesa di un’ultima chiamata “to save the day”, direbbero gli americani.
Pierluigi Bersani è forse il più simpatico della compagnia: il Maurizio Sarri del centro-sinistra. Il “vincente senza successo”, l’allenatore amato dai tifosi per la sua autenticità, per quelle frasi che diventano cult, per quel modo di parlare che sembra quello del commentatore da circolino Arci di paese. Quando Bersani parla in tv o rilascia interviste, lo fa con quella bonaria saggezza di chi ha vissuto mille battaglie, ha perso qualche volta di troppo, ma mantiene intatto il suo umorismo. Gli ascoltatori lo adorano non perché dica cose rivoluzionarie, ma perché lo sentono genuino. È l’anti-allenatore mediatico, quello che quando parla sembra stia commentando la partita al bar, non in uno studio televisivo.
E poi c’è Goffredo Bettini, lo “zio” del centro-sinistra. Bettini non è mai stato in prima linea come gli altri, ma è sempre stato lì: il consigliere nell’ombra, il tattico che suggeriva le mosse, l’eminenza grigia che muoveva i fili. Negli ultimi anni, però, anche Bettini è uscito allo scoperto con una serie di articoli e interviste in cui propone “campi larghi”, “patti repubblicani”, “carte di Assisi”. Ora, forse perché le interviste si diradano, addirittura si è messo in testa di resuscitare Rinascita, storica testata di “pensiero” del PCI, da cui siamo sicuri che non farà mancare il suo apporto di riflessione. Di certo, non si sa se questi consigli siano richiesti o meno, ma arrivano puntuali come i comunicati di un allenatore di provincia che ha vinto un campionato di Serie C e ora vuole spiegare alla Nazionale come si gioca.
Bettini è quello che parla di “maglie larghe”, di “alleanze paritetiche”, di “manifesti di valori”, con quella prosa che mescola idealismo politico e pragmatismo tattico. È il Gian Piero Gasperini della situazione: uno che studia, propone, sperimenta, e quando le sue idee vengono criticate replica con pazienza certosina. Il problema è che Bettini, come gli altri, non riesce a stare zitto. E come Gasperini, di fronte a teorie di gioco sempre elogiate, i risultati sono stati pochini. Ameno che non si consideri epocale l’accordo (sempre scricchiolante) Conte-Schlein E così, anche lui si unisce al coro degli allenatori in panchina (al parco) che non possono fare a meno di dire la loro.
Guardando all’altra parte dello schieramento, il centrodestra ha risolto il problema in modo più efficace. Berlusconi è morto, e il centro-destra lo onora ogni due per tre con dichiarazioni di circostanza, commemorazioni ufficiali, ricordi affettuosi, intestando leggi post mortem. Ma la differenza sostanziale è che, per loro fortuna, Berlusconi non dà più interviste. Non convoca conferenze stampa dall’aldilà. Non propone nuove strategie elettorali. È un padre nobile rispettato ma silenzioso, un allenatore leggendario che ha lasciato il posto senza continuare a rompere le scatole alla nuova dirigenza.
Anche Salvini e Meloni, quando Berlusconi era vivo, hanno dovuto gestire l’ingombro del Cavaliere, ma dopo la sua morte hanno trovato una pace che il centro-sinistra non conosce. Nessun vecchio leader di Forza Italia si alza la mattina per dare interviste al Corriere spiegando come dovrebbe giocare la squadra. Nessuno propone “patti di centro-destra” o “manifesti moderati”. Il campo è libero, e chi comanda comanda.
Il problema del centro-sinistra non è avere padri nobili. È averne troppi, tutti ancora vivi, tutti ancora vogliosi di parlare, tutti convinti di avere la soluzione. È come se il Milan avesse sulla panchina Allegri, ma negli spogliatoi continuassero ad aggirarsi Sacchi, Capello e Ancelotti, ognuno con la sua idea di calcio, ognuno pronto a spiegare dove si sta sbagliando.
Prodi vuole il centro, D’Alema vuole la tattica, Veltroni vuole la poesia, Bersani vuole l’autenticità, Bettini vuole il campo largo. E nel frattempo, chi dovrebbe giocare la partita vera – Schlein, Conte, gli altri leader attuali – si trova a gestire non solo l’avversario, ma anche il coro di suggerimenti, consigli non richiesti, analisi post-partita fatte prima ancora che la partita inizi.
La grande lezione di Allegri, quella raccontata da Falci, è che alla fine conta il risultato. “A corto muso” significa vincere anche senza giocare bene, significa essere pragmatici, significare fare il meglio con quello che si ha (senza andare costantemente alla ricerca di nuove “giovani promesse”), significa non farsi ossessionare dal “bel gioco” se questo non porta vittorie. Allegri ha vinto sei scudetti con questa filosofia, e l’ha fatto zittendo i critici proprio con i numeri.
Il centro-sinistra, invece, continua a giocare partite infinite nei propri spogliatoi, con troppi allenatori che danno indicazioni diverse. E mentre si discute di moduli, tattiche, filosofie di gioco, la destra vince “a corto muso”: senza troppi pensieri, senza troppi padri nobili a intralciare, con una leadership chiara e senza ingombri.
Forse è arrivato il momento che anche il centro-sinistra impari la lezione di Allegri: mandare gli allenatori in pensione davvero in pensione, e lasciare che chi è in campo giochi la sua partita. Perché come diceva il Trap: “Non si vince con i filosofi, si vince con i giocatori”.
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