Memoria e Futuro

Peeping War

di Marco Di Salvo 16 Giugno 2025

Ricordo ancora quando lo schermo televisivo un tempo era la finestra unica, rassicurante nella sua cornice fisica, attraverso cui gli italiani vedevano le guerre. Le immagini dei bombardamenti in Iraq ai tempi della  prima guerra del Golfo ci cadevano addosso mediate dai toni esagitati ma fintamente rassicuranti di Emilio Fede, la cui voce rassicurante trasformava l’orrore in un racconto ordinato, quasi asettico (tranne quando si trattava di richiamare all’ordine collaboratori e tecnici, facendo la regia delle riprese dalla sua scrivania in diretta). Io ricordo che sfuggivo dalle cronache un tempo, incapace di confrontarmi con la crudezza delle immagini e coi toni da cronisti embedded. Oggi faccio lo stesso, mentre Enrico Mentana prova a raccontare con il suo stile la drammaticità degli eventi in Israele e Iran. Nel frattempo, dalla guerra in Ucraina in poi, milioni di persone cercano una verità più cruda altrove: nelle chat di Telegram, dove i video dei razzi e delle macerie circolano senza filtri.

Telegram è diventato il nuovo campo di battaglia dell’informazione bellica. Nella guerra russo-ucraina, il canale ufficiale di Zelensky è passato da 65.000 a oltre 1,4 milioni di follower, mentre cittadini comuni postavano video dei raid aerei in diretta, mappe dei rifugi, avvisi anti-sabotaggio. In Italia, 17 milioni di utenti navigano su questa piattaforma ibrida tra social network e messaggistica, che mescola la potenza di Facebook, la rapidità di Twitter e l’immediatezza di WhatsApp. Ma qui non ci sono giornalisti che moderano i toni: la guerra si mostra nuda, con il rombo degli esplosivi registrato dai cellulari traballanti, le grida soffocate, la polvere che si alza dalle case distrutte.

Questo salto epocale trasforma il ruolo del pubblico. Se i telegiornali tradizionali offrivano una narrazione lineare – spesso condita da retorica patriottica o compassione di maniera – su Telegram gli utenti diventano cacciatori attivi di frammenti di verità. Cercano i video delle esplosioni a Tel Aviv non nei reportage confezionati, ma nei canali underground dove militanti, residenti o soldati condividono riprese amatoriali. In Russia, nonostante la censura, canali come Meduza sfidano il Cremlino con versioni alternative dei massacri di Bucha, mentre Ria Novosti spinge la propaganda ufficiale: due narrazioni nemiche che coesistono nella stessa app. Persino la CIA ha aperto un canale Telegram in russo per reclutare informatori, sfruttando l’anonimato della rete Tor.

I giornalisti televisivi devono oggi fare i conti con questo doppio binario. Mentana, con sempre meno mezzi a disposizione per fare il suo mestiere e pochi inviati, rappresenta l’evoluzione al risparmio del giornalismo di guerra in TV: meno enfasi, più contesto, tante parole da studio nel tentativo, non sempre riuscito di raccontare quello che viene trasmesso via satellite dai campi di guerra. Ma il suo racconto, pur rigoroso e flitrante, non può competere con l’immediatezza traumatizzante dei video su Telegram, dove la guerra è un flusso continuo e non una selezione ragionata. E mentre l’IAEA denuncia l’attacco israeliano alla centrale nucleare iraniana, gli utenti cercano su gruppi privati i filmati delle esplosioni a Isfahan, spesso senza sapere se quelle immagini siano autentiche o manipolate.

Il paradosso è lampante: mai come oggi abbiamo avuto accesso a tante fonti, e mai come oggi la verità sembra più sfuggente. Lo schermo della TV forse ci proteggeva con la sua distanza, nonostante l’enfasi da embedded dei giornalisti; quello dello smartphone ci scaraventa nell’inferno, ma senza una bussola per orientarci. Resta la domanda di Eschilo: in guerra, la prima vittima è sempre la verità. Ma ora che ognuno può filmarla, forse sta a noi decidere come (e se) guardarla in diretta.

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