Memoria e Futuro

Pezze e pezzi: il giornalismo rattoppato

di Marco Di Salvo 22 Dicembre 2025

Quando c’erano meno laureati in scienze della comunicazione che giravano per le redazioni dei giornali, era difficile non essere rimproverati da un vecchio redattore o da un direttore perché all’attacco del pezzo non c’era la notizia. Chissà che fine hanno fatto, quei veterani e quei direttori, perché nei giornali è sempre più difficile trovare notizie vere negli articoli pubblicati sui quotidiani, e quando ciò accade spesso ti rendi conto che è un pregio esclusivo del giornalista che firma l’articolo e non la linea della testata.

Il colore – questa categoria di scritto che una volta faceva parte del contorno, dell’arricchimento narrativo attorno ai fatti – è diventato predominante e più importante della cronaca stessa. Questo era tradizionalmente un articolo che aggiungeva atmosfera, dettagli ambientali, emozioni e contesto umano a una notizia già raccontata altrove. Era il racconto delle facce dei presenti, del tempo che faceva, delle reazioni della gente comune. Serviva a dare profondità e vita alla cronaca, non a sostituirla. Quante volte mi sono sentito dire: “Fammi un pezzo di millecinquecento parole di colore, che lo metto in taglio basso”. Era un complemento, un di più rispetto alla sostanza informativa principale.

Oggi questo rapporto si è rovesciato. Il colore ha divorato la notizia. Prendiamo la recente conferenza stampa annuale di Putin. Raccontare del suo presunto essere innamorato, speculare sulla sua vita sentimentale, è diventato più importante che raccontare quello che realmente ha detto. Certo, essendo la conferenza stampa russa principalmente propaganda, si potrebbe obiettare che tanto vale concentrarsi su altro. Eppure qualcosa ha detto, e chi ha avuto voglia di ascoltarlo lo ha sentito e lo ha raccontato. Ma i titoli dei giornali erano tutti sulla possibile fidanzata di Putin e sul resoconto storiografico di tutte le sue precedenti storie, vere o presunte, pubbliche o occulte.

Non è un caso isolato. Ormai non si riesce più a leggere un articolo di politica che parli delle cose, solo delle reazioni alle cose. Delle mosse, delle contromosse, del “clima”, delle “tensioni”. Non sappiamo neanche cosa ci sia davvero nella finanziaria, visto che le attenzioni sono tutte rivolte a chi ha detto cosa di chi, chi ha fatto per primo la mossa vincente, chi si è offeso con chi. È tutto un teatrino di retroscena, spesso inventati, ma verosimili. Anche questo è un portato della storia editoriale di Repubblica, che per prima diede sfogo alla fantasia dei suoi cronisti di politica interna.

Massimo Bordin all’interno della rassegna non per nulla intitolata “stampa e regime” su Radio Radicale criticava spesso questo stile giornalistico, fatto della cronaca sincopata degli incontri dietro le porte chiuse: “Ma come fanno questi a sapere di cosa parlano dietro la porta chiusa?”, si chiedeva con sarcasmo. Aveva ragione. Il giornalismo è diventato un esercizio di immaginazione creativa mascherato da cronaca. Si ricostruiscono dialoghi mai ascoltati, si attribuiscono intenzioni mai dichiarate, si raccontano umori e strategie come se il giornalista fosse stato presente in stanze dove non è mai entrato.

Guardiamo alla cronaca giudiziaria. Un tempo si raccontavano i capi d’accusa, le prove, le difese, le sentenze. Oggi leggiamo soprattutto del “gesto dell’imputato”, dello “sguardo perso nel vuoto”, della “lacrima trattenuta”, di quello che “pensò la vittima”. Certo, anche questo ha un suo valore narrativo, ma quando sostituisce interamente la sostanza processuale, quando non sappiamo più di cosa sia accusato davvero qualcuno perché siamo troppo impegnati a descrivere il suo abbigliamento in aula, allora qualcosa non funziona.

O prendiamo la politica internazionale. Le guerre vengono raccontate sempre più attraverso le storie individuali – il che può essere legittimo per umanizzare i conflitti – ma spesso a scapito dell’analisi geopolitica, degli interessi in gioco, delle dinamiche diplomatiche. Sappiamo tutto della famiglia sfollata, ma poco delle ragioni storiche del conflitto. Conosciamo il dramma personale, ignoriamo il contesto. Per non dire la storia che porta a quel contesto.

Anche la politica economica subisce lo stesso destino. Le riforme fiscali diventano “la sfida di Tizio contro Caio”. Le manovre di bilancio sono “la resa dei conti tra correnti”. I dati economici scompaiono dietro le personalizzazioni, le tabelle su chi ha vinto o ha perso nella battaglia sulla legge di bilancio, le narrazioni da soap opera parlamentare. Il lettore finisce per illudersi di sapere tutto dei rapporti di forza interni a un partito o ad una coalizione e nulla delle conseguenze concrete di una legge sulla sua vita.

Forse la causa sta proprio in quei laureati in scienze della comunicazione di cui si parlava all’inizio. Non per colpevolizzare una categoria, ma per notare un cambiamento culturale: si è passati dal giornalismo come mestiere artigianale, appreso sul campo, a un giornalismo più teorico, più attento alle tecniche narrative che ai contenuti. L’ossessione per lo storytelling, per il racconto coinvolgente, ha finito per sacrificare la funzione primaria dell’informazione: dire cosa è successo.

C’è un’ironia linguistica in tutto questo: in napoletano le “pezze a colore” sono i rattoppi vistosi, le toppe messe su un vestito con stoffe di colori diversi, magari sgargianti, per nascondere gli strappi. Sono riparazioni evidenti, che invece di mimetizzarsi saltano all’occhio. Ecco, il giornalismo contemporaneo sembra fatto proprio così: “pezze a colore” messe sui buchi delle notizie che mancano. Rattoppi vistosi che dovrebbero coprire l’assenza di sostanza, ma che in realtà la denunciano ancora di più. I “pezzi di colore” sono diventati “pezze a colore”: toppe appariscenti che cercano di nascondere che sotto non c’è più il tessuto della vera informazione.

I vecchi redattori sapevano che il colore veniva dopo, non prima. Che prima si davano le cinque W (chi, cosa, quando, dove, perché), e solo dopo si aggiungeva atmosfera. Oggi quella gerarchia è saltata. Il come si racconta ha divorato il cosa si racconta.

Il risultato è un’informazione più emotiva, più coinvolgente forse, ma anche più vuota. Siamo tutti più intrattenuti e meno informati. Conosciamo i retroscena presunti e ignoriamo i fatti certi. E siamo convinti di saperne di più.

E i vecchi direttori che ti rimproveravano perché all’attacco non c’era la notizia? Forse si sono arresi, forse sono andati in pensione, forse hanno capito che il mercato oggi premia altro. Resta il dubbio: quando ci accorgeremo di aver perso  l’essenziale?

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