Memoria e Futuro

Presunto spontaneo

di Marco Di Salvo 2 Ottobre 2025

Se mi leggete da un po’, sapete che anch’io ho le mie paturnie, legate soprattutto al modo in cui le cose vengono raccontate. Ho difficoltà per esempio a concepire i governi “tecnici”, visto che tutti i governi democratici passano per l’approvazione dalle assemblee elettive, segno che le forze politiche, più o meno spontaneamente, si trovano a dover dare il loro assenso e quindi marcare politicamente l’esecutivo (che poi in alcuni casi se ne vergogni, è un problema che riguarda loro e i loro elettori).

Un’altra definizione che ho difficoltà a concepire è quella di “movimenti spontanei” o “dal basso”. In questi giorni paginate di giornali a raccontare le manifestazioni pro-Gaza infiorettano i loro resoconti con questa frase fatta che, non vuol dire nulla, se non l’ammissione, da parte di realtà organizzate e degli stessi media, che non si erano accorti della loro esistenza. Segno ulteriore, qualora ce ne fosse bisogno, del loro vivere in un mondo a parte.

Di questa separatezza ha dovuto subire le conseguenze anche il leader della CGIL, che ora insegue disperato le manifestazioni altrui sperando di metterci il cappello sopra, così come l’infastidita presidente del consiglio che, novella Calimero, pensa che certe  cose accadano solo per farle uno sfregio personale (sono passati più di sessant’anni da quando questa sindrome della politica è stata analizzata da Richard Hofstalder. E la sua analisi è ancora pienamente funzionante, anche per la nostra “cara leader”).

Ma il punto è un altro. L’incapacità di leggere la realtà intorno a sé pare l’unica costante di questi momenti (sommata alla sicumera con cui, dopo aver sbagliata l’analisi, si vuole trasformare la realtà per adattarla all’analisi, come i bambini che volevano fare entrare a forza il quadrato nel posto della stella in quell’antico gioco di forme geometriche). I social media hanno trasformato profondamente le condizioni sociali che influenzano la nascita e l’organizzazione dei movimenti spontanei rispetto a qualche decennio fa ma nei palazzi del potere e della comunicazione pare non se ne siano accorti e vivono tutto con lo stupore dei bambini.

Mentre in passato le proteste richiedevano una pianificazione più lenta, tradizionalmente organizzata tramite comitati, incontri fisici e media tradizionali, oggi la rapidità e la facilità di comunicazione digitale stanno radicalmente cambiando il quadro. Uno degli aspetti più significativi è la velocità con cui le idee, le emozioni e le informazioni si diffondono in rete. Questo crea un senso di comunità virtuale e immediata tra persone geograficamente disperse, che possono così reagire all’unisono a eventi anche molto lontani, come nel caso recente delle proteste in Italia per Gaza. Nei social la condivisione di video, immagini o appelli coinvolgenti produce un effetto di “contagio emotivo” che mobilita rapidamente grandi masse con poche risorse organizzative.

L’assenza di un’organizzazione gerarchica fa percepire i movimenti come spontanei, ma dietro ci sono comunque elementi di coordinamento spesso informali: gruppi chiusi, influencer, attivisti digitali che agiscono come catalizzatori.

Le ricerche delle neuroscienze sociali mostrano (da anni) anche come, soprattutto negli adolescenti e nei giovani, l’interazione digitalizzata aumenti la sensibilità all’influenza emotiva dei pari, rendendo molto più probabile un impegno collettivo rapido. I meccanismi di ricompensa cerebrale, stimolati dalla partecipazione virtuale (like, commenti, condivisioni), favoriscono un coinvolgimento ripetuto e rafforzato, amplificando la partecipazione.

D’altro canto, la comunicazione digitale permette anche un’azione immediata contro la censura: mentre in passato le proteste potevano subire ritardi o depistaggi mediatici, oggi i messaggi circolano senza filtri, permettendo una visibilità istantanea e globale. La viralità diventa uno strumento potente per aggregare e organizzare.

Tuttavia, questa nuova dinamica porta con sé anche fragilità specifiche. La natura diffusa e reticolare del movimento online può portare a una partecipazione più volatile, in cui l’impegno vacilla con la stessa rapidità con cui si è formato, con movimenti che nascono e si dissolvono velocemente. E se una volta dalla fase movimentista si passava alla formazione di gruppi che fornivano nuova linfa alle classi dirigenti, negli ultimi anni molta di questa nazione si esaurisce nel momento in cui si compie, non trasferendosi in ambito politico e sindacale, Neanche in termini di consenso a coloro che provano ad aggregarsi ai “movimenti spontanei” (le Marche sono il laboratorio perfetto di quanto scrivo, altro che Ohio*).

Rispetto alle condizioni sociali attorno ai movimenti spontanei del passato, dove la mobilitazione fisica richiedeva uno sforzo organizzativo maggiore, il contesto contemporaneo genera una mobilitazione più accessibile, performativa e meno strutturata, ma con capacità di diffusione e risonanza senza precedenti. Questo crea uno scenario in cui la spontaneità è più facile da attivare, grazie alla tecnologia e alla nuova sociabilità digitalizzata, ma che allo stesso tempo richiede attenzione critica sulla reale portata e durata di questi movimenti. Mentre la spontaneità dei movimenti sociali di ieri era legata a situazioni materiali precise e strutturate, oggi essa è amplificata e modificata dall’infrastruttura digitale che permette una nuova forma di “spontaneità organizzata”, intrecciando il reale con il virtuale nella protesta sociale. Ma durano spesso (dai tempi di Occupy Wall Street) il tempo della protesta, lasciando poche o nulle conseguenze sulla capacità di trasformarsi del contesto istituzionale. Lasciandoci ancora in balia dei Bonelli o dei Gramellini di turno.

 

*Preghiera per i colleghi commentatori: per favore, se usate metafore, cercate di aggiornarle. Parlare di “Ohio d’Italia” è come citare Tafazzi e augurarsi di ricevere sorrisi ammiccanti da parte di chi, per ragioni d’età, non ha mai visto la TV anni novanta. L’Ohio non è più uno stato contendibile da diversi cicli elettorali americani ma, dalle parti di chi bazzica a Montecitorio e le redazione politiche dei media italiani, pare non ce ne sia resi conto.

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