Cosa vi siete persi

Rallentare per capire: la lezione di 15 anni di slow journalism

di Marco Di Salvo 26 Dicembre 2025

L’anno prossimo Delayed Gratification compie quindici anni dalla fondazione. Di che sto parlando? Di un unicum, che da qualche anno ogni tre mesi si deposita nella mia cassetta della posta. Quindici anni trascorsi a nuotare controcorrente in un oceano mediatico dove la velocità è diventata l’unica metrica che conta, dove essere primi vale più di essere corretti, dove l’urgenza artificiale ha sostituito l’importanza reale. Mentre il ciclo informativo accelera verso un punto di fusione in cui notizia e rumore diventano indistinguibili, questa rivista trimestrale londinese ha scelto una strada opposta con una radicalità quasi provocatoria: aspettare.

Quando la fretta diventa catastrofe

L’ecosistema informativo contemporaneo si è costruito su una promessa ingannevole: che sapere tutto, subito, equivalga a capire. Ma la fretta non è solo una cattiva consigliera – è una fabbrica di disastri. E gli ultimi anni offrono una galleria degli orrori di cosa accade quando il giornalismo diventa sprint invece che maratona.

Un paio di esempi recenti per ricordare di cosa stiamo parlando.Nel 2023, nelle settimane successive all’attacco di Hamas, organizzazioni giornalistiche diffusero resoconti non verificati che Hamas avesse decapitato 40 bambini e si fidarono delle accuse iniziali che Israele fosse responsabile di una mortale esplosione in un ospedale di Gaza. Due errori colossali, opposti nella direzione, identici nella dinamica: la corsa a pubblicare senza verificare, la pressione a schierarsi prima di capire, l’impossibilità di ammettere “non lo sappiamo ancora”.

Questo non è giornalismo, è roulette russa informativa. E le conseguenze non sono astratte: proteste violente, summit diplomatici cancellati, un impatto materiale sulla diplomazia del conflitto.

La velocità come patologia sistemica

Questi non sono incidenti isolati. Sono sintomi di una malattia cronica. Il giornalismo istantaneo ha trasformato la velocità da strumento a fine, da mezzo per informare a metrica per competere, da valore professionale a imperativo esistenziale. Il risultato è un ecosistema che produce tonnellate di contenuto ma pochi grammi di comprensione.

La velocità ha colonizzato ogni spazio. I live blog che si aggiornano ogni minuto. Gli alert che vibrano sui telefoni a ogni sviluppo. I tweet che precedono persino l’articolo completo. Le breaking news che “rompono” senza mai fermarsi a ricucire. Tutto questo movimento frenetico crea l’illusione dell’essere informati, quando in realtà produce solo ansia informativa e frammentazione cognitiva.

Il paradosso è brutale: più il ciclo accelera, meno sappiamo davvero. Le notizie esplodono, dominano i trend per ore, poi vengono dimenticate – spesso prima ancora di essere state verificate. Chi torna a controllare? Chi dedica lo stesso spazio alla smentita che aveva dato all’annuncio?

Come osservano gli esperti di etica giornalistica, “mentre il giornalismo spesso viene con l’urgenza di rompere le notizie, rispettare le scadenze e condividere informazioni il più velocemente possibile, ottenere la storia – e tutti i suoi fatti – corretta è più importante che battere la concorrenza”. Ma questa saggezza viene sistematicamente ignorata quando la pressione competitiva schiaccia tutto.

La rivoluzione del ritardo

Delayed Gratification nasce nel gennaio 2011 da Rob Orchard e Marcus Webb come risposta diretta a questa frenesia. La loro intuizione è tanto semplice quanto dirompente: e se invece di inseguire le notizie, aspettassimo che le notizie si sedimentino? E se pubblicassimo solo quando sappiamo davvero come è andata a finire?

Ogni numero è orgogliosamente “Last to Breaking News” e revisita gli eventi degli ultimi tre mesi con il beneficio del senno di poi. Non le speculazioni su cosa potrebbe accadere, ma la cronaca di cosa è effettivamente accaduto. Non “40 bambini decapitati” ripetuto acriticamente, ma “ecco cosa sappiamo davvero tre mesi dopo”. Non “attacco israeliano all’ospedale” gridato in prima pagina, ma “ecco cosa mostrano le analisi forensi una volta che la polvere si è posata”.

Il format trimestrale non è una scelta editoriale qualsiasi, è una dichiarazione politica. In un panorama ossessionato dalla tempestività, pubblicare ogni tre mesi significa rivendicare il valore della riflessione sulla reazione, dell’accuratezza sulla velocità, della comprensione sull’engagement compulsivo.

La rivista apre con “The Slow News Report” che riprende le principali storie del trimestre mostrando come si sono evolute. Spesso le conclusioni sono drammaticamente diverse da quelle che i titoli urlati lasciavano presagire. È una lezione di umiltà giornalistica, un promemoria quotidiano di quanto poco sappiamo davvero quando una notizia è appena scoppiata.

Un modello che funziona

La rivista è sopravvissuta quasi 15 anni senza pubblicare una singola pubblicità, vivendo esclusivamente di abbonamenti ed eventi. Ha raggiunto 24.000 copie cartacee con 5.000 abbonati. Circa il 95% degli  abbonati sceglie la versione cartacea – un dato che in epoca digitale suona quasi sovversivo.

Ci sono voluti tre anni e mezzo per andare in pareggio, ma la pazienza ha pagato. Il team è rimasto piccolo – sei persone più una rete di freelance – mantenendo l’agilità necessaria per produrre giornalismo di qualità senza cedere alle sirene del clickbait.

Il fondatore Rob Orchard ha spiegato in alcune occasioni che per una rivista con alti valori produttivi venduta a 12 sterline, fare profitti dalle edicole è praticamente impossibile. Ma quando offri valore reale, i lettori sono disposti a pagare. Delayed Gratification ha dimostrato che il modello “lento” non è solo eticamente superiore ma anche economicamente sostenibile.

Oltre il giornalismo: una filosofia

Lo slow journalism di Delayed Gratification non è solo una tecnica, è una filosofia. Come lo slow food ci ha ricordato che mangiare non è solo ingerire calorie, lo slow journalism ci ricorda che informarsi non è solo accumulare dati ma comprendere il mondo.

Questa rivista ci costringe a fare domande scomode: perché ci sentiamo obbligati a sapere tutto immediatamente? Cosa perdiamo in questa corsa perpetua? Quanto della nostra “informazione” è in realtà solo ansia spacciata per consapevolezza? Quante delle nostre certezze granitiche di oggi diventeranno le smentite imbarazzanti di domani?

Come dice Orchard, “è quasi impossibile stare al passo con le notizie. Potresti avere tutti i tuoi monitor che pompano aggiornamenti, 24 ore su 24, senza dormire, e comunque non essere davvero al corrente”. Il problema non è la quantità di informazioni disponibili, è la nostra illusione di poterle dominare tutte, e la pretesa del sistema mediatico di poterle processare istantaneamente senza errori.

Quindici anni dopo: più attuale che mai

Mentre Delayed Gratification si avvicina al suo quindicesimo anniversario, il contesto che l’ha generata si è solo aggravato. L’intelligenza artificiale promette di accelerare ulteriormente la produzione di contenuti. I social media continuano a frammentare l’attenzione in unità sempre più piccole. Su X, i checkmark ora disponibili a pagamento incentivano a postare indipendentemente dalla verità, amplificando la disinformazione.

In questo scenario, l’esperimento di Delayed Gratification diventa ancora più cruciale. Ci dimostra che la soluzione alla sovrabbondanza informativa non è necessariamente più informazione o informazione più veloce, ma informazione migliore. Che il giornalismo può ancora assolvere alla sua funzione di servizio pubblico se ha il coraggio di sottrarsi alla logica estrattiva dell’economia dell’attenzione.

Quindici anni di pubblicazione trimestrale sono la prova vivente che rallentare non significa restare indietro, ma vedere la strada. Che la pazienza non è una debolezza ma una forma superiore di intelligenza.

Delayed Gratification non è solo una rivista: è un manifesto per un consumo informativo più sano, più critico, più umano. E mentre il giornalismo frenetico continua a produrre macerie reputazionali e dolore evitabile, questa testata trimestrale ci ricorda che esistono alternative. Che si può scegliere la profondità sulla superficie, la sostanza sulla forma, la verità sulla tempestività.

Quindici anni dopo, in un’era dove ogni giorno porta nuovi esempi di come la velocità tradisca l’accuratezza, questa rivista trimestrale rappresenta non un ritorno al passato ma una strada verso un futuro più sensato. Perché il vero anacronismo non è pubblicare ogni tre mesi, ma continuare a credere che si possa raccontare il mondo in tempo reale senza pagare un prezzo devastante in termini di verità.

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