Memoria e Futuro
Regime change senza piano B
Mentre precipitano bombe su bombe su Teheran e Tel Aviv noi che stiamo a guardare incrociando le dita ci troviamo a pensare a cosa accadrà dopo, sia da una parte che dall’altra. Chi sostituirà gli attuali tenutari del potere in questi paesi? Perché se c’è stato un simbolo esplicito della crisi delle democrazie mondiali negli ultimi decenni è stato quello legato alla capacità di influenzare in senso positivo i regime change in paesi che uscivano da regimi variamente dittatoriali.
L’ultimo trentennio ha visto crollare regimi spietati tra applausi internazionali e promesse di democrazia. Eppure, nella schiacciante maggioranza dei casi, quel cambiamento sognato ha partorito mostri inattesi: stati frammentati, guerre civili endemiche o nuove forme di autoritarismo sotto mentite spoglie. È un paradosso storico che inchioda l’Occidente alle sue ingenuità strategiche.
Prendiamo le ceneri dell’Impero sovietico. La dissoluzione del 1991 liberò 15 repubbliche, ma il passaggio al capitalismo e alla democrazia si rivelò un trauma. In Ucraina, il PIL crollò al 47,2% del livello pre-indipendenza entro il 1996. In Moldavia, toccò il 45% . Se Paesi Baltici e Asia centrale hanno in parte recuperato, lo fecero spesso sotto leader illiberali: il Turkmenistan, con un PIL pro capite di appena 7.355 dollari nel 2017, è retto da una dinastia autocratica. La Russia stessa, dopo il caos eltsiniano, ha imbrigliato le libertà in una “democrazia sovrana” centralizzata, mentre le sue repubbliche autonome – come la Cecenia – vivono in un equilibrio precario tra repressione e lealtà forzata (per usare un eufemismo).
Le Primavere Arabe hanno replicato il copione, in quanto a speranze tradite. In Libia, la caduta di Gheddafi nel 2011 non ha prodotto istituzioni solide, ma un campo di battaglia tribale. I ribelli che rovesciarono il colonnello erano legati a territori specifici, con interessi inconciliabili. Oggi il paese è spaccato tra governi rivali a Tripoli e Bengasi, milizie incontrollate e trafficanti di esseri umani. Quella che doveva essere una transizione è diventata una “incompiuta” cronica. Lo Yemen, a sua volta, è il ritratto della frammentazione armata (e lungamente ignorata a livello di media internazionali). Le proteste del 2011 contro Saleh hanno scatenato una guerra civile feroce: gli Houthi sostenuti dall’Iran contro il governo appoggiato dall’Arabia Saudita. Oltre 233.000 morti, carestie e un collasso umanitario sono il bilancio di un conflitto senza vincitori, dove Al-Qaeda ha ritagliato feudi nel caos.
L’Iraq, dall’altra parte, è l’emblema della ferita autoinflitta. L’invasione del 2003 per esportare la democrazia ha polverizzato lo stato baathista, ma ha scatenato demoni settari. Sunniti ed sciiti, compressi da Saddam, si sono scannati in una guerra civile che è costata oltre un milione di morti. Baghdad è oggi un “buco nero di violenza” dove le milizie sciite, vicine all’Iran, dettano legge mentre i curdi coltivano sogni d’indipendenza. La democrazia formale esiste, ma svuotata di sostanza da corruzione e faide.
Persino l’Afghanistan – parte integrante di questa geografia del fallimento – rientra nel modello: vent’anni di nation-building occidentale sono evaporati in poche settimane nel 2021, con i talebani più forti di prima.
Questi casi rivelano un errore di fondo: credere che la rimozione violenta del tiranno sia sufficiente a generare democrazia. In realtà, le dittature spesso comprimono conflitti etnici, tribalismo o fondamentalismi. Quando il coperchio salta, quelle fratture esplodono. E le istituzioni democratiche, importate senza consenso sociale o radici culturali, crollano sotto il peso. Il risultato? Non libertà, ma un limbo di instabilità dove le uniche alternative sono la balcanizzazione o il ritorno del Leviatano, magari con nuovo nome e vecchi metodi. Una lunga striscia di fallimenti squadernata davanti a chi ancora si illude che la storia abbia una regia lineare. E invece spesso ci si muove senza un piano B. Con buona pace dei complottisti anti-globalizzazione.
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