Memoria e Futuro
Scavare sotto il fondo
“Si dice che una volta toccato il fondo non puoi che risalire. A me capita di cominciare a scavare.” Mi torna in mente questa celebre frase di Freak Antoni, il geniale musicista e scrittore bolognese scomparso nel 2014, che sembra essere diventata il mantra non ufficiale della politica governativa italiana contemporanea. Un vademecum involontario per quella particolare categoria di amministratori pubblici che, trovandosi in difficoltà, invece di fermarsi e riflettere, afferrano pala e piccone e cominciano a scavare con determinazione verso il centro della Terra.
Il caso più recente è la vicenda del generale libico Osama Njeem Almasri, arrestato in Libia ieri con l’accusa di aver torturato detenuti e averne ucciso uno sotto tortura (dove l’avevo già sentita questa?). La stessa persona che l’Italia aveva liberato e rimandato a casa con un aereo di Stato nel gennaio scorso, nonostante un mandato della Corte penale internazionale. Ma non è tanto l’errore originale a lasciare basiti, quanto la giustificazione arrivata ieri da fonti di governo: “L’Esecutivo italiano era bene a conoscenza dell’esistenza di un mandato di cattura emesso dalla Procura Generale di Tripoli a carico del libico Almasri già dal 20 gennaio 2025. Questo dato ha costituito una delle fondamentali ragioni per le quali il governo italiano ha giustificato alla Cpi la mancata consegna di Almasri e la sua immediata espulsione proprio verso la Libia”.
Traduzione: lo abbiamo mandato in Libia sapendo che lì c’era un mandato di cattura contro di lui, quindi sapevamo che sarebbe stato arrestato. Peccato che siano passati undici mesi. Undici mesi in cui Almasri era libero, continuava le sue attività, gestiva il carcere di Mitiga. E l’arresto è avvenuto solo dopo che gli scontri armati scoppiati a maggio a Tripoli hanno indebolito la Forza Rada di cui Almasri è esponente. Non una strategia lungimirante del governo italiano, ma un cambio negli equilibri di potere libici completamente al di fuori del nostro controllo.
È come se uno studente bocciato a giugno sostenesse a settembre: “Vedete? Io volevo essere bocciato! Era il mio piano!” Una giustificazione che non regge, che insulta l’intelligenza di chi ascolta. E soprattutto, una toppa infinitamente peggiore del buco originale.
Perché questo è il vero tema: non tanto commettere errori, che sono umani e inevitabili, ma il modo in cui si reagisce. Invece di ammettere la svista, chiedere scusa e cercare di limitare i danni, la tendenza è costruire castelli di giustificazioni sempre più elaborati, che finiscono per crollare sotto il loro stesso peso. È l’eredità di una cultura politica che ha fatto dell’arrangiarsi, del cavarsela, del “tirare a campare piuttosto che tirare le cuoia”, del trovare sempre una spiegazione per quanto illogica essa sia, il suo marchio di fabbrica.
La storia italiana è piena di questi esempi memorabili. C’è il celebre caso di Claudio Scajola e la casa comprata “a sua insaputa” nel 2010. L’allora ministro, coinvolto in uno scandalo immobiliare, si produsse in una conferenza stampa in cui tentò di spiegare come avesse acquistato un appartamento di lusso senza saperlo. C’è la ministra Fornero che durante la crisi economica suggerì ai giovani disoccupati di non essere troppo “choosy”, e il tentativo di rimediare con spiegazioni articolate su cosa intendesse veramente non fece che peggiorare la situazione, trasformando una frase infelice in un simbolo di distacco dalla realtà.
Più recentemente, il pasticcio del decreto Flussi con il trasferimento delle competenze sulle richieste di protezione umanitaria dalle sezioni specializzate dei tribunali alle Corti d’Appello, già sovraccariche. Tutti i presidenti delle Corti d’Appello italiane fanno appello al governo per tornare indietro. Ignorati. Poi, all’ultimo momento, la maggioranza chiede di rinviare il testo in commissione per spostare di trenta giorni l’entrata in vigore del decreto. Trenta giorni per prepararsi a un cambiamento che richiede una ristrutturazione organizzativa profonda. Un caso definito esplicitamente come “una lunga serie di toppe peggiori dei buchi”. E ancora la sottosegretaria all’Interno Wanda Ferro che ha sostenuto che i giudici non sono in grado di capire se un paese è sicuro o meno, perché mancano delle “competenze specialistiche” che invece ha il governo grazie alle informazioni dell’intelligence. Una giustificazione che di fatto nega l’indipendenza della magistratura e subordina il diritto alla valutazione politica. Vedremo che ne dirà la Corte Costituzionale e l’Alta Corte di Giustizia Europea. E cosa si inventeranno i nostri eroi per giustificare l’ennesimo fallimento annunciato.
C’è una scena nel film “Un sacco bello” di Carlo Verdone in cui il protagonista fa cadere delle bottiglie d’olio in strada e cerca di rimediare strofinando la scarpa sulla macchia. Un signore che osserva da una finestra gli dice sarcastico: “Buttace pure l’insaponata, così invece de 10 ce ne cascheno 50”. È esattamente quello che fa la politica italiana con le sue giustificazioni post-errore.
Il problema sta probabilmente in una combinazione di fattori psicologici e politici. C’è l’effetto “sunk cost”, il costo sommerso: quando hai già investito risorse in una posizione, tendi a difenderla anche quando diventa insostenibile, perché ammettere l’errore significherebbe riconoscere che tutto quell’investimento è stato sprecato. C’è poi la cultura politica italiana che premia raramente l’ammissione di colpa e interpreta il cambio di posizione come debolezza. In un sistema mediatico che enfatizza il conflitto, dire “ho sbagliato” è visto come un suicidio politico. Meglio attaccare, contrattaccare, trovare giustificazioni, scaricare la colpa su altri.
Nel caso Almasri, il governo poteva semplicemente dire: “Abbiamo sbagliato. Avremmo dovuto rispettare il mandato della Corte penale internazionale. Abbiamo sottovalutato la situazione”. Fine. Invece, abbiamo avuto mesi di spiegazioni contorte e ora il tentativo di trasformare una disfatta in vittoria, sostenendo di aver previsto tutto. Come se mandare un criminale di guerra a casa sua con un aereo di Stato, sapendo che “forse” dieci mesi dopo “potrebbe” essere arrestato, fosse una strategia degna di Machiavelli e non un disastro diplomatico e morale.
Come avrebbe detto ancora Freak Antoni, con quella sua ironia amara e disincantata, osservando la situazione: quando pensi di aver toccato il fondo, prendi una ruspa. E se non basta una ruspa, chiedi un aereo di Stato. E poi sostieni che era tutto previsto. Perché in Italia, l’arte di peggiorare le cose non è un difetto, è una tradizione.
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