Memoria e Futuro

Scusate il ritardo

di Marco Di Salvo 18 Giugno 2025

Dopo l’ennesimo inutile vertice dei G7 possiamo serenamente dirlo: la macchina della diplomazia internazionale, quel colossale ingranaggio che dovrebbe spegnere gli incendi globali, in guerra si trasforma spesso in un relitto fumante bloccato nel fango. I meccanismi sono noti, rodati, e proprio per questo fatalmente inadatti alla velocità brutale del conflitto armato. Prendete anche il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, l’apice teorico della governance mondiale. Il suo motore immobile è da sempre il veto, un’arma perfetta brandita con cinica prevedibilità. Ogni crisi acuta diventa il replay di un copione grottesco: condanne annacquate negoziate per giorni mentre i civili muoiono sotto le macerie; bozze di risoluzioni che girano in tondo tra capitali, accumulate correzioni a margine che ne svuotano progressivamente il significato; sessioni d’urgenza che si concludono in un nulla di fatto, con dichiarazioni di “profonda preoccupazione” che suonano come beffe sulle labbra di chi aspetta soccorso. Il ritardo non è un incidente di percorso, è il prodotto di un sistema concepito per l’equilibrio, non per l’azione sotto tiro.

Il risultato è un’impotenza teatrale, costosissima, osservata in diretta mondiale. Sono i summit che si moltiplicano come funghi dopo la pioggia di sangue – incontri a porte chiuse in lussuose località neutre, voli supersonici di statisti esausti – che producono poco più di dichiarazioni congiunte dal linguaggio opaco e impegni vaghi su “corridoi umanitari” che stentano a materializzarsi. È la sensazione strisciante che mentre si discute la formulazione perfetta del comma 7, un intero quartiere viene raso al suolo. Il ritardo uccide, silenziosamente, mentre i leader controllano l’orologio, pensando al prossimo impegno.

Parallelamente, in un universo che dovrebbe essere l’antitesi dinamica di quella torre d’avorio paralizzata, un altro tipo di ritardo logora le speranze. I movimenti per la pace, le voci della società civile che si levano contro l’orrore, scoprono sulla loro pelle la vertiginosa accelerazione imposta dalla guerra moderna. Le loro armi sono le piazze, le parole, la capacità di mobilitare coscienze. Ma come colpire un bersaglio che si deforma e si sposta alla velocità di un missile ipersonico? Le piattaforme digitali, strumenti vitali per l’organizzazione, diventano trappole.

Pensate ai poveri partiti di opposizione italiani. Si prova a lanciare una grande manifestazione nazionale per chiedere un cessate il fuoco immediato. Si spendono giorni a costruire la coalizione, a mediare tra le diverse anime del pacifismo (dai tradizionalisti ai nuovi attivisti digitali, dai gruppi religiosi ai collettivi laici), a definire un messaggio comune, a prenotare autobus, a disegnare i percorsi autorizzati. Si carica l’evento sulle app, si diffonde sui social. Poi, la notte prima, un attacco particolarmente efferato, un’escalation imprevista, una dichiarazione minacciosa che cambia completamente il contesto. Gli slogan preparati appaiono improvvisamente ingenui, fuori tempo massimo, inadeguati alla nuova, mostruosa realtà. La pagina dell’evento diventa un campo di battaglia digitale: chi chiede di cancellare tutto per ripensare, chi urla che bisogna comunque scendere in piazza “ora”, chi propone di cambiare radicalmente il messaggio ma senza un accordo. Il ritardo trasforma la protesta potente in un atto quasi archeologico, un rituale sincero ma percepito come scollegato dal flusso sanguinante dell’attualità. È uno scollamento frustrante, che indebolisce il messaggio e demoralizza i partecipanti. Mentre cercano disperatamente di essere rilevanti “adesso”, sono costretti a navigare con mappe vecchie su un oceano in tempesta.

Il paradosso è feroce. La guerra, con la sua brutalità elementare, impone una velocità disumana. Le decisioni che contano – lanciare un’offensiva, tagliare un gasdotto, rispondere a un attacco – vengono prese in bunker, in stanze di comando, in pochi minuti o ore, con conseguenze immediate e devastanti. Dall’altro lato, le strutture create per fermare la guerra o per opporvisi con la forza della protesta organizzata – i palazzi della diplomazia multilaterale, le reti della società civile – sono macchine lente, pesanti, intrinsecamente burocratiche. Sono progettate per la ponderazione, il consenso, la mediazione, valori nobili in tempo di pace che in tempo di guerra si trasformano in altrettanti cappi al collo. Il leader internazionale, anche il più determinato, è incastrato in una rete di veti, alleanze, calcoli di Realpolitik che rendono ogni passo avanti una faticosa conquista negoziale, sempre tardiva rispetto all’evolvere degli eventi sul campo. L’attivista per la pace, animato da urgenza morale, si scontra con la lenta macchina dell’organizzazione dal basso, con la difficoltà di trovare un messaggio unificante e tempestivo in un panorama di crisi che si accavallano e mutano forma, e con la rigidità degli strumenti tecnologici che dovrebbero essere d’aiuto ma spesso diventano un ulteriore freno. Entrambi, pur nella loro radicale differenza di ruolo e potere, gridano – a volte solo dentro di sé – un “Scusate il ritardo” che è un grido di impotenza di fronte alla travolgente, tragica velocità della storia quando decide di scivolare nel baratro. La guerra non aspetta. I vertici e le piazze, purtroppo, sì. E il prezzo di quel ritardo lo pagano gli innocenti, in un’attesa senza fine che sa di sangue e polvere.

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