Memoria e Futuro
This land is my land
La tragedia di Castel d’Azzano, dove i fratelli Franco, Dino e Maria Luisa Ramponi hanno fatto saltare in aria la loro casa all’arrivo delle forze dell’ordine intervenute per l’ordine di sgombero, provocando la morte di tre carabinieri e il ferimento di altri 15, rappresenta l’epilogo estremo di una crisi che covava da anni. I fratelli, raccontano le cronache, vivevano senza corrente, senza gas, come dentro a una grotta, e già in quattro-cinque occasioni avevano preannunciato il peggio, dicendo “piuttosto che lasciare casa ci facciamo saltare in aria”. Non si trattava di minacce vuote: il 24 novembre del 2024 si erano già opposti all’arrivo dell’ufficiale giudiziario aprendo una bombola di gas, con Franco e Maria Luisa che erano saliti sul tetto e la donna si era cosparsa di benzina.
Non è un caso che questa vicenda sia maturata proprio in terra veneta. Il Veneto ha sempre coltivato un’identità indipendentista più radicale e antica rispetto alla stessa Lega Nord, radicata nella memoria della Serenissima Repubblica di Venezia, che mantenne la propria sovranità per oltre mille anni fino al 1797. La Liga Veneta nacque tra il 1979 e il 1980, venne inizialmente guidata da Franco Rocchetta e Achille Tramarin e si batté, oltre che per la difesa del patrimonio culturale veneto, per l’indipendentismo e per il federalismo fiscale, precedendo di cinque anni la Lega Lombarda di Bossi e ponendo le basi per un movimento che ha sempre guardato con sospetto al compromesso federalista lombardo. La differenza tra l’indipendentismo veneto e il federalismo leghista non è solo una questione di sfumature politiche: è uno scontro tra chi invoca l’autonomia all’interno dello Stato italiano e chi rivendica una sovranità originaria, mai veramente ceduta. Tant’è che I rapporti nei decenni sono stati sempre complicati, con espulsioni e abbandoni da parte dei venetisti. I fuoriusciti accusano la Lega di essere una struttura non democratica e centralistica, poco attenta se non ostile alle specificità dei Veneti (con la maiuscola).
L’episodio più emblematico di questo radicalismo contadino veneto rimane l’assalto al campanile di San Marco del 9 maggio 1997, quando otto “venetisti” assalirono con un carro armato fatto in casa, con dei mitra, il campanile di San Marco, dopo aver sequestrato un barchino per il trasporto del tanko. Quel “Tanko Marcantonio Bragadin 007”, costruito artigianalmente trasformando un furgone in un rudimentale veicolo blindato, rappresentò la materializzazione del sogno indipendentista: contadini e artigiani veneti che si armavano per riconquistare simbolicamente la propria capitale. Ma l’epopea del tanko non si è fermata. Nel 2014, i carabinieri individuarono una nuova macchina da guerra dei Serenissimi, assemblata negli ultimi due anni a partire da una vecchia pala cingolata, un Fiat Allis Fl 20. Ancora una volta, l’ingegno contadino si metteva al servizio della rivoluzione indipendentista: non intellettuali o militari professionisti, ma agricoltori e meccanici che trasformavano attrezzi da lavoro in strumenti di insurrezione. Questi tanko artigianali incarnano l’idea che la terra, gli strumenti del lavoro e la capacità di costruire con le proprie mani possano trasformarsi in strumenti di resistenza politica.
Questa disperata difesa della proprietà trova inquietanti parallelismi nella storia americana, dove il mito della frontiera ha generato ripetuti scontri violenti tra contadini, allevatori e autorità federali. L’episodio di Ruby Ridge nel 1992 rimane il caso più emblematico. Randy Weaver fu assediato nella sua proprietà nell’Idaho nell’agosto 1992 dopo che agenti dei Marshals vennero ad arrestarlo per non essersi presentato in tribunale per accuse federali relative ad armi da fuoco. L’assedio durò undici giorni e costò la vita al figlio quattordicenne di Weaver, alla moglie e a un agente federale. Weaver incarnava l’archetipo del settler , il pioniere, americano: un uomo che aveva trasformato la propria proprietà in una fortezza ideologica, dove ogni metro quadrato rappresentava un principio non negoziabile di autodeterminazione.
La saga della famiglia Bundy incarna invece la resistenza collettiva degli allevatori dell’Ovest. Nel 2014, Cliven Bundy si rifiutò di pagare le tasse di pascolo sul territorio federale in Nevada, rivendicando diritti preesistenti sulla terra. Lo scontro divenne sempre più volatile nel corso di diversi giorni, con agenti federali che impiegarono cani e pistole stordenti, e membri delle milizie armati di fucili che assunsero posizioni da cecchino su un cavalcavia che dominava l’area. Il governo federale, temendo un massacro, cedette. Fu una vittoria senza precedenti: per la prima volta nella storia recente, cittadini armati avevano costretto il governo degli Stati Uniti a fare marcia indietro. Sono passati dieci anni da quando Cliven Bundy convocò una folla al suo ranch in Nevada e inscenò uno scontro armato per il controllo della terra pubblica federale. Non fu mai condannato, e le sue mucche continuano a pascolare illegalmente ancora oggi. Questo precedente ha legittimato l’idea che la resistenza armata alla legge possa avere successo, alimentando un movimento crescente di “sovereign citizens” e milizie anti-governative.
Ciò che accomuna i Ramponi ai costruttori dei tanko veneti, ai Weaver e ai Bundy è una visione del mondo in cui la proprietà terriera rappresenta l’ultimo baluardo contro l’annientamento dell’identità. Per questi contadini ribelli, la terra non è semplicemente un bene economico, ma l’estensione fisica della propria autonomia esistenziale. Cedere significa accettare la propria cancellazione come soggetti liberi. Negli Stati Uniti, questa ideologia si radica nel mito fondativo della frontiera: l’idea che il valore di un uomo si misuri nella sua capacità di domare la wilderness e difendere ciò che ha costruito. In Veneto, la stessa logica si ancora alla memoria della Serenissima, una Repubblica che difese la propria indipendenza per secoli contro Imperi e Papati. In entrambi i casi, la resistenza violenta alla legge può essere percepita non come crimine, ma come atto di legittima difesa contro un potere che non si riconosce come legittimo.
I fratelli Ramponi hanno seguito questa logica portandola alle estreme conseguenze. La decisione di far esplodere la casa piuttosto che consegnarla rappresenta l’equivalente della terra bruciata: se non posso possedere questa terra, nessuno la potrà avere. È lo stesso gesto disperato di chi costruisce un carro armato artigianale per riconquistare piazza San Marco, o di chi imbraccia un fucile per impedire agli agenti federali di confiscare il proprio bestiame. Il Leone di San Marco non si inginocchia: preferisce morire in piedi, con la sua terra che gli brucia intorno.
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