Memoria e Futuro
“Tinitìmi, tinitìmi”: la politica italiana e l’arte di non incontrarsi mai
C’era un tempo in cui (e magari succede ancora oggi), nelle strade della raggiante Catania cantata anni fa da Carmen Consoli, la sera era difficile non assistere davanti a un pub o a un locale pubblico qualsiasi a qualcuno che non approcciasse a un litigio o a una discussione (più o meno scherzosa) urlando “tinitimi, tinitimi!” – trattenetemi, trattenetemi. Facevano finta di voler iniziare una rissa, si avvicinavano minacciosi, alzavano la voce, gesticolavano furiosamente. Ma bastava che nessuno li prendesse sul serio, che nessuno davvero li trattenesse, ed ecco che si giravano verso la compagnia con aria teatralmente delusa: “Oh, chi fa, nun mi tiniti?” – Ma che fate, non mi trattenete?
Era tutta scena. Una recita ben orchestrata dove l’obiettivo non era mai arrivare al dunque, ma piuttosto mettere in mostra il coraggio, l’ardimento, la disponibilità al confronto. Salvo poi ritrarsi al primo accenno di scontro reale, con la scusa perfetta: Il vigliacco non era lui erano gli altri, quelli che non avevano trattenuto il combattente, impedendogli così di dare prova del proprio valore.
Assistendo al recente balletto tra Elly Schlein e Giorgia Meloni sul tema del dibattito pubblico, è impossibile per me non pensare a quei personaggi catanesi. La dinamica è identica, quasi caricaturale nella sua prevedibilità.
Vediamo l’ultimo esempio: Schlein aveva lanciato la sfida per un faccia a faccia ad Atreju, la festa di Fratelli d’Italia, ponendo come condizione un confronto diretto con la premier. Un colpo a effetto, una mossa che sulla carta sembrava coraggiosa: entrare in casa dell’avversario, accettare il confronto sul suo terreno. E qui parte il “Tinitìmi, tinitìmi”.
Ma ecco che Meloni accetta, rilanciando: va bene il confronto, ma deve esserci anche Giuseppe Conte. La mossa è brillante nella sua semplicità: trasforma il duello in un ring affollato, dove nessuno davvero si misura con nessuno. E soprattutto, spalanca la porta a una serie infinita di condizioni e controcondizioni.
Schlein, prevedibilmente, declina: se deve esserci Conte, allora ci siano anche Salvini e Tajani. E così via, in una escalation di richieste che trasforma il possibile confronto in un’assemblea condominiale dove tutti urlano e nessuno ascolta. Il risultato? Nessun dibattito, con Donzelli di FdI che constata: “È un peccato che Schlein abbia alla fine declinato l’invito”.
Non è nemmeno la prima volta. A maggio 2024 era saltato il duello televisivo tra le due leader, quello che doveva andare in onda su Rai1 da Bruno Vespa. Anche in quel caso, una saga infinita di disponibilità dichiarate e ostacoli improvvisamente insormontabili. M5S, Forza Italia, Azione e Alleanza Verdi-Sinistra si erano opposti, e l’Agcom aveva dovuto prendere atto che senza la maggioranza delle forze politiche il confronto non poteva tenersi.
Il copione è sempre lo stesso: si dichiara la massima disponibilità al confronto, si rilanciano sfide pubbliche, si mostrano i muscoli dialettici. Ma poi, puntualmente, spunta l’ostacolo, la condizione imprescindibile, il cavillo procedurale che rende tutto impossibile. E così, alla fine, chi ha lanciato la sfida può sempre dire di aver voluto il confronto, mentre chi l’ha accettata con riserva può sostenere che l’altro ha posto condizioni inaccettabili.
Questa danza dello scorpione non è casuale né improvvisata. È lo stallo elevato a forma d’arte politica. Perché in fondo, nella politica italiana di oggi, il confronto vero fa paura a tutti. Espone, cristallizza posizioni, costringe a dare risposte concrete davanti a milioni di persone. Meglio allora il conflitto mediato, filtrato dai social, dai comunicati stampa, dalle dichiarazioni rilanciate dai giornali.
Come ha scritto acutamente qualcuno, i dibattiti servono principalmente a compattare i propri elettori, non a convincere gli indecisi. In un’epoca di polarizzazione estrema, dove gli elettorati sono trincerati nelle proprie posizioni, il rischio di un confronto diretto supera di gran lunga i benefici potenziali. Meglio allora inseguirsi senza raggiungersi, sfidarsi senza mai combattere davvero.
Meloni può continuare a dire che Schlein scappa dal confronto perché non ha il coraggio di misurarsi con lei. Schlein può ribattere che la premier rifiuta il vero duello uno contro uno perché teme di essere messa alle strette. Conte può denunciare il tentativo di marginalizzarlo. E tutti possono continuare questa partita infinita, dove ognuno cerca di apparire come il coraggioso e dipingere gli altri come i vigliacchi.
Il problema è che questa commedia dei “tinitìmi”, della sfida enunciata è mai portata fino in fondo, impoverisce il dibattito democratico. I cittadini assistono a un teatrino dove nessuno davvero vuole misurarsi con le idee dell’altro, dove tutto si riduce a schermaglie tattiche e manovre di posizionamento. Non si discute di politiche concrete, di visioni del paese, di soluzioni ai problemi reali. Si discute di chi ha paura di chi, di chi ha posto quale condizione, di chi ha rifiutato cosa.
È una politica che si nutre di conflitto perpetuo ma di confronto mai. Una politica dove il gesto vale più della sostanza, dove l’apparenza di voler combattere è più importante della battaglia stessa. Come quei personaggi catanesi che urlavano “tinitìmi”, i nostri leader si inseguono in una corsa dove nessuno vuole davvero raggiungere l’altro, perché forse, nel profondo, tutti sanno che il vero confronto rivelerebbe la povertà delle rispettive proposte.
E così continuano a rincorrersi, a sfidarsi, a dichiararsi pronti. Sapendo che, come in ogni buona recita siciliana, ci sarà sempre qualcuno o qualcosa che impedirà l’incontro. E potranno poi girarsi verso il pubblico con aria delusa: “Ma che fate, non mi trattenete?”
La differenza è che, mentre nelle strade di Catania la scena faceva sorridere per la sua trasparente teatralità, nella politica nazionale questa danza dello scorpione ha conseguenze reali: un paese bloccato, un dibattito pubblico anemico, cittadini sempre più disillusi che assistono a un gioco di cui conoscono fin troppo bene il finale. Nessun confronto, nessuna battaglia, solo l’infinito inseguirsi di ombre che non vogliono mai farsi sostanza.
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